da “Il Cercatore di Meraviglie”
Una delle cose più brutte che mi sia capitato è sentirsi impotente.
Una settimana fa Jamila è venuta a scuola con un livido sul viso. Non è la prima volta, per cui anche se molto combattuto, alla fine dell’ora l’ho avvicinata e le ho chiesto se fosse successo qualcosa.
“Non è niente prof. Mi sono inciampata e sono caduta dalle scale”.
E mentre lo diceva si guardava le scarpe. Un paio di ballerine nere che le donano tantissimo, ma non credo fosse colpa delle scale e nemmeno delle ballerine.
“Jamila, sai che, se c’è qualcosa che non va, ne puoi sempre parlare. C’è lo sportello di ascolto e per quanto posso, ci sono anch’io”.
Jamila non ha mai aperto alcuno sportello né mi ha mai cercato per parlarne e io continuo a pensarci. Cerco di convincermi che forse è davvero caduta dalle scale, anche se dentro di me so che è solo una scusa. Non sono un investigatore forense, ma per capire che la dinamica di una caduta non può produrre un livido del genere, non ci vuole un gran genio. E poi ha una luce diversa negli occhi. Anzi, da un po’ di giorni è una luce spenta. Ieri ho dovuto interrogarla. Di solito si offre volontaria. E di solito è preparata. Ma dalle sue risposte monosillabiche e incerte, ne deduco che non deve aver studiato molto o molto probabilmente ha anche passato tutto il giorno sui libri, ma le righe erano trasparenti. Il livido rosso invece ormai tende al viola, tra qualche giorno sarà verdognolo e poi giallino e poi non si vedrà più. E in quel malessere, come puoi avere voglia di leggere il Manzoni. Il Manzoni è proprio l’ultimo dei tuoi pensieri. Cercherò di non infierire.
Oggi pomeriggio ci sono i colloqui con i genitori e sono risoluto. Devo cercare di parlarne con il padre. Sì, con il padre, perché viene sempre e solo lui. Ma io preferirei parlare con la madre. Anche se temo che servirebbe a poco.
Subito dopo i convenevoli spicci, gli esterno la mia preoccupazione per il leggero calo che Jamila ha avuto ultimamente, ma è una scusa. Tuttavia, un cambiamento sì, c’è stato e se non ricordo male, proprio dal primo livido che ho notato un paio di mesi fa. Ma ovviamente non ne faccio cenno.
“Non si preoccupi, professore”, mi risponde risoluto il padre. “Quando torno a casa le faccio io un bel discorsetto.”
Suona come una minaccia, allora cerco di addolcirlo e punto sulle buone qualità della figlia, che sono indiscutibili, e sul fatto che a un certo punto dell’anno è normale avere un calo di attenzione.
“Sa, a volte è la stanchezza accumulata nei mesi…” ma mi rendo conto che il padre non abbocca. Tuttavia, non voglio essere complice di qualcosa che non va bene. Non voglio solo stare a guardare. Sarei un codardo. Prendo tutto il coraggio che ho e vado dritto al dunque.
“Senta, ho notato che ultimamente Jamila viene a scuola con dei lividi. Mi sa spiegare come se li è procurati?”, chiedo con il cuore che batte a mille. Non sai mai fino a che punto puoi spingerti. Può essere interpretata come una invasione della privacy o come un’illazione. E se fosse vero che è caduta dalle scale? Sì, ma se non lo fosse?
“Lividi? Quali lividi? Se intende quelli che si è fatta cadendo dalle scale è perché la furba gira sempre con quelle scarpe che sembrano ciabatte e che la fanno scivolare…”. E penso alle sue ballerine nere. “…Le ho detto mille volte di portarle a farci mettere la suola di gomma, ma lei no”.
Non sono uno psicologo, ma, mentre lo dice, le pupille si dilatano e temo che sia una bugia bella grossa.
“E poi di cosa s’impiccia…” continua, come se mi avesse letto nel pensiero o forse perché ha la coda di paglia. “…pensi a fare bene il suo lavoro qui dentro, che a casa ci sono io.”
Fine. Muro.
E lì inizio a sentirmi impotente.
“È proprio vero che qui non avete rispetto per i ruoli. Nel nostro paese nessun insegnante si sarebbe mai sognato di farmi una domanda del genere! Qualsiasi cosa possa averle detto la ragazzina, si ricordi che è una ragazzina e che la sua parola non vale nulla contro la mia. E poi ne dicono di fesserie questi ragazzi”, aggiunge visibilmente irritato.
Forse, invece, ho fatto centro. E non ne sono per nulla contento.
“Certo, certo, ma ho notato un cambiamento di umore ultimamente, allora mi chiedevo se ci fosse qualcosa che non va. Tutto qui.” aggiungo, cercando di non irritarlo oltre.
“Bene, lei non si chieda niente. Sono solo ragazzi. Se stiamo dietro a tutti i loro capricci stiamo freschi! E poi sa benissimo in cosa può incorrere se continua con una sola parola con questa storia assurda. La avverto: stia molto attento”, tuona e sa tanto di minaccia.
Insomma, non c’è proprio modo di entrare in un confronto con il padre. Bussare non serve a nulla. Dovrei sfondare quella porta ma è blindata e io sono solo. Ne ho parlato anche con i colleghi e mi danno del pazzo, mi dicono che rischio una bella denuncia. Figuriamoci il dirigente. Mi dice di non immischiarmi che i genitori sono marocchini, che là la donna non conta nulla, che dovrei saperlo che deve assecondare sempre il volere del marito, del padre, del fratello. Come se non lo sapessi! Sembra che improvvisamente tutti condividano la giustezza di tradizioni che, poi, fanno finta di condannare indignati sui social o al bar. Ignavia. È solo ignavia. Di fatto queste sono tradizioni estranee a Jamila e alle altre, che qui ci sono nate e vissute. Non fanno parte del loro vissuto, di chi nel bene o nel male di questo paese si sente comunque di farne parte. E un bel giorno, così, ci si trovano dentro fino al collo.
Jamila è una brava ragazza. Studia, ma non studia solo perché sennò il padre la mena se porta un brutto voto. Studia perché è molto intelligente e curiosa. E perché vuole emanciparsi. Ma dopo oggi non sono più certo che ce la farà. Ho le mani legate e mi sento proprio una merda, come direbbero i miei ragazzi.
Stamattina alla terza ora, mentre leggevamo e commentavamo un capitolo dei Promessi Sposi si è messa a piangere ed è scappata in bagno.
In tutta la letteratura se vogliamo possiamo trovare agganci alla realtà…Se li si vuole trovare. E forse è l’unico modo che li fa avvicinare ai classici. Bisogna trovarlo per dare un senso al tutto: non ha senso leggere se non troviamo mai nulla di noi in quello che leggiamo. E qualcosa abbiamo scoperto che c’è sempre. Oggi, avrei preferito non fosse così. Jamila non è Lucia e non vuole essere il sacrificio dell’innocente per il riscatto del peccatore. Le sono corso dietro, conscio del fatto che in quei minuti fuori dall’aula, in aula sarebbe potuto succedere di tutto, e sarebbe stata solo una mia negligenza. Ma non ho resisto. Ho chiesto alla Baggio di andare veloce a chiamare la bidella, che mi dovevo assentare un momento. In queste cose non si può aspettare. Ogni minuto è prezioso. Bisogna affrontarle qui ed ora certe cose. E lo faccio. Corro ai bagni e chiamo Jamila da fuori. Non posso certo entrare nel bagno delle femmine! Lei non risponde e mi sale un po’ d’ansia. Poi sento tirare lo sciacquone dell’acqua e Jamila esce, ancora con gli occhi rossi. Non le chiedo nulla. L’abbraccio e mi abbraccia. Ecco un altro gesto che potrebbe valermi una denuncia per molestia sessuale. Fanculo la molestia! Jamila mi stringe così forte che mi viene da pensare che nemmeno Antonella mi ha mai abbracciato con tanta veemenza. Ma questo è un abbraccio diverso. Jamila sta cercando di far schizzare fuori tutto il dolore che ha dentro. E la lascio fare. Si vede che non l’abbracciano tanto spesso.
“Sì, lo so questo è uno degli effetti collaterali che possono dare i Promessi Sposi. Nemmeno a me sono mai piaciuti granché.” Cerco di sdrammatizzare dopo almeno due minuti buoni di stretta. Due minuti che sembravano un’eternità, un po’ per l’importanza di quell’abbraccio, un po’ per la paura che entrasse una studentessa nel bagno delle ragazze…E vaglielo a spiegare tu!
Rido. Ride. Ma io so e lei sa. E ha quegli occhi grandi e neri, con quelle sopracciglia ad ali di gabbiano che finalmente sembrano riprendere il volo. Ma è solo per un attimo.
“Prof, io non voglio andare in Marocco”, mi confida.
“In Marocco?”
“Sì, mio padre vuole che vada in Marocco e sposi uno che non ho mai visto! E vuole che viva in un posto che non ho mai visto. Ma le pare giusto? Mi sono opposta in tutti i modi, ma oltre a…Insomma, oltre a beccarmi uno schiaffo duro in faccia, non mi fa nemmeno più uscire con le mie amiche.”
Cazzo, oltre al danno la beffa. Deve avere usato il dorso della mano, penso. Questo sì che è un bel guaio doppio. E penso a come certi ragazzi, figli di immigrati di seconda generazione, siano incastrati in un limbo. In una terra di nessuno. Vivono vite parallele. Gli chiediamo di sviscerare i Promessi Sposi come fosse la cosa più importante per il loro futuro e non sappiamo che a casa hanno già il loro don Rodrigo, le loro perpetue e di Renzo nemmeno l’ombra, ché il loro futuro è già segnato. Sono qui ma li si vorrebbe come se fossero là. Per non parlare di quelli, che qui, non li vorrebbero nemmeno. Come si fa a vivere così? Come faccio a darle un voto sul Manzoni con quello che sta attraversando? Cosa vuoi che gliene freghi a lei di Lucia Mondella quando la sua vita è ancora più schifosa? Con che coraggio possiamo ignorare tutto ciò?
“No, non credo sia giusto”, le rispondo non certo di aver fatto bene. “Jamila, pensi che ci possa essere il modo per non farti partire?”, aggiungo. Ma mi accorgo che la domanda è stupida.
“Ovvio che no! E mi ci spedirà a breve, prima che diventi maggiorenne”.
“E se ci parlassi io?” pur sapendo di aver detto un’idiozia.
“Non servirebbe a niente.”
“Ma almeno devi finire la scuola!” dico, anche se in realtà non mi interessa della scuola, ma penso ad un appiglio. Penso che potrebbe essere un modo per farle prendere tempo.
“Non la finirò. A mio padre non gliene frega niente della scuola. Ma se vado male, guai. Non gli va mai bene niente”. È visibilmente scoraggiata.
“Penso che partirò e me la farò andare bene”, mi confida alla fine, lasciando la presa dell’abbraccio.
“Jamila…” ma in realtà non so cosa dire. “Ne riparliamo, ok? Adesso torniamo in classe.”
Sapevo che non ne avremmo più riparlato.
Aveva ragione, forse parlare al padre non sarebbe servito a niente, se non ad inasprirlo ulteriormente. Ma sarebbe stato un tentativo. Sarebbe servito anche a me. Accidenti, mi sento così impotente. Sono così impotente. Mi sta salendo nuovamente il mal di testa e un senso di claustrofobia.
Perderemo Jamila senza aver fatto niente. E chissà quante altre Jamila che nemmeno sappiamo.
L’impotenza è una cosa bruttissima. Inizi a pensare a tutto quello che dovresti fare ma non puoi. A quello che succederà per non averlo fatto. Al senso di colpa che subentrerà inevitabilmente. Per Jamila dev’essere un po’ come sapere di dover morire, sapendo che si può anche morire ogni giorno. Maledizione! Non la mia Jamila.
Jamila è un nome arabo che significa bella. E lei lo è. Bella dentro e fuori. Si dice che sia un nome adespota, mai stato portato da alcun santo, anche se lei anche un po’santa lo è, suo malgrado.
Impotente è invece una parola che vorrei dimenticare. Cerco di scrollarmela di dosso, ma lei, l’impotenza, resta incollata al cuore.
Oggi non insegno più in quarta D al Vivaldi, ma ogni tanto mi giungono notizie indirette, ad esempio, della Baggio che è sbocciata come un fiore e, in classe, interviene e alza le mani per chiedere la parola. Mi dicono che continua ad essere eccentrica e naif come un quadro di Henry Rousseau e a fare battute che fanno ridere solo lei. Degli altri, beh, gli altri mi raccontano direttamente, perché sono sempre tutti iperconnessi. Di Jamila, invece, non si è più saputo nulla. Un giorno non è più andata a scuola e così il seguente e quello ancora dopo. Hanno provato a cercarla in tutti i modi, ma è sparita nel nulla. Niente telefono, niente social. Nulla. Non è più tornata. Restano le sue poesie della nostra Ora di Poesia. Perle di dolorosa e rara bellezza: la sublimazione in versi di un futuro ahimè già segnato. Al tempo ne avevo solo qualche sospetto, poi il sospetto divenne fondato.
E non feci nulla…Salvo leggere l’articolo in cronaca nera.