Dopo più di un mese di Covid formato famiglia, qualcosa la voglio dire anch’ io. Mettetelo in discussione. Come sempre bisogna fare. Non ho alcuna verità assoluta, se non esperienze dirette. E come tali vanno prese. Qualcuno può riconoscersi, qualcuno meno e, in tutta onestà, lo vorrei sperare.

Se, come prima cosa voglio ringraziare tutti voi, co-protagonisti di questa tragicommedia, medici di medicina generale, medici di pronto soccorso e operatori tutti, in secondo luogo vorrei tirarvi le orecchie. Lo so che non avete nemmeno fiato per respirare, perché siete in prima linea. Ma se non vi fate sentire ora, se non pretendete ora, la vostra trincea è destinata a cadere. Ci sono già segni di cedimento. Ce lo dite proprio voi.

Il fatto è che non è andato tutto bene. Un piano pandemico non si è visto, la pandemia sì, e non entro in merito alla sua gravità o meno, perché la campagna di terrorismo ha fatto il resto. Gli ingredienti c’erano tutti per annunciare il disastro. Vorrei sentirvelo dire e puntare il dito non solo sulla popolazione distratta e poco attenta, ma su chi vi ha privato di poter operare come dovreste. Vorrei sentirvelo dire. Se non ora quando? Vorrei sentire le vostre voci, collettive, senza individualismi, perché anche voi siete vittime della mala gestione pandemica, e ce lo ricordate ogni giorno: siamo tutti pupazzi manovrati da potenti deux ex machina che tirano le fila di questo immenso teatro dell’assurdo, che ci vede tutti burattini e burattinai improvvisati. Ma ci sono nomi e cognomi pagati oro da tutti noi che hanno delle responsabilità. E’ ora di puntare il dito più in alto e non solo in basso.

La mia storia non è nemmeno delle peggiori, per fortuna. Ci son tanti covid quante persone. Covid non è uguale per tutti. Per esempio, averlo, non saperlo e non sentirlo, è la condizione migliore, pericolosa per gli altri, se non viene diagnosticata, ma la migliore. L’asintomatico è, oggi, la condizione più desiderata: unto dal Signore (e forse, ahimè, anche il peggior untore. Quello nascosto). Altrimenti, la malattia può essere, nell’ordine, dura, molto dura, fatale. E non solo per la malattia in sé ma per il grande girone infernale e distopico nel quale si entra. Per me e la mia famiglia, due adulti, tre figli, due nonni novantenni e un coniglio nano, sparsi su diverse Asl è stato tutto questo, escluso, grazie a Dio, il livello fatale. Ma alcuni di noi potevano facilmente raggiugerlo. Evitarlo è stata dura. Un lavoraccio. Oltre che malata, mi sono dovuta trasformare in un segugio di informazioni mediche, terapeutiche, amministrative e burocratiche senza precedenti. Covid, in alcune realtà, come per i miei vecchi, è un labirinto infernale. Personlmente mi è andata meglio. Ecco dove nel primo caso, a il destino, la mie indiscusse doti di rompiballe,  e, ultimo ma non meno importante, il vostro intervento (un po’ sudato, sono sincera) ci hanno voluto ancora tutti in blocco su questa terra, i più anziani e malandati, come dei miracolati.!! Tuttavia, ne ha risentito il mio fegato, tra telefoni che non rispondono mail, mail, PEC, cercando figure di riferimento, risposte,  cercando di bypassare il lento stillicidio della burocrazia, perché i tamponi ci sono, non ci sono non ce ne sono abbastanza, poi scomodando tutta la mia agenda di contatti medici (grazie a tutti quelli che mi hanno sempre risposto anche la domenica) e, poi, leggendo, informandomi, su cosa? Su tutto! E su nulla di mia competenza. ma molto non quadrava: protocolli amministrativi e terapeutici; quali e in quali casi, spesso eterogenei, mai chiari. per scoprire che non ci sono ancora, o non ovunque, o in modo frammentario e disomogeneo su uno stesso territorio.  Perché la medicina territoriale che voi ci dite essere la soluzione per evitare il collasso, non è stata potenziata. Anzi, i medici di base non hanno nemmeno accesso ai DPI. Vi pare normale? Non hanno più giorni di festa e molti di loro ricevono telefonate e richieste a tutte le ore. Vi pare normale? Hanno un numero di pazienti da seguire che in situazioni come questa è ingestibile. Vi pare normale?

No, non è stato divertente scoprire tutto questo. Ne avrei fatto a meno. Avrei preferito pensare solo a guarire. Sentire di potermi fidare. Affidarmi al sistema sanitario (cercate il significato del verbo affidarsi sul dizionario Treccani). Ma non ho avuto scelta: Covid può potenzialmente uccidere, ma uccide di più la lentezza delle attese. Pensate alla lentezza dei tamponi. Vi sembra normale dover sottostare ad un’attesa talvolta fatale, perché in alcune province rasenta le tre settimane, e nel frattempo non ricevere un protocollo terapeutico mirato?

Ebbene, tutto questo è stato farcito dall’ ansia, dalla preoccupazione, dalle palpitazioni, dall’affanno, da una polmonite bilaterale Interstiziale, scoperta perché ho insistito per un esame diagnostico e per la quale santa madre Tachipirina non sarebbe bastata. In una lotta contro il tempo, come in un episodio da supereroe ammaccato. Ed è proprio quel tempo che è vita o morte. O, anche solo, le code in ospedale, le corsie piene di quanti potevano essere curati a casa, ma che nelle attese peggiorano, perché la malattia può essere subdola e va affrontata subito prima che diventi mostro di cronaca. E si può, ce lo dite voi, perché a differenza di un attacco cardiaco, esso concede un certo margine di tempo, prima di manifestarsi, eventualmente, in tutta la sua cattiveria. Ma se noi quel tempo lo riempiamo di attese e di burocrazia, non stupitevi delle ambulanze che affollano i parcheggi del pronto soccorso.

La campagna di terrorismo mediatico, invece che fare reale informazione, ha fatto il resto. Perché oltre al Covid è la paura. Quella che, nell’ignoranza e nel sentimento di abbandono, annebbia le facoltà percettive e decisionali. Crea il panico. E il panico è nemico della ragione. Il governo continua a mettere paura indiscriminatamente a tutti, dai bambini agli anziani, e in questi mesi non ha messo in atto nessuna campagna preventiva per i soggetti a rischio. Nessun intervento preventivo a parte la grande idea di chiuderci in casa, con azzeramento dei contatti sociali. La catastrofe economica di molti settori (incluso il mio). Un metodo che non si è certo rivelato il più efficace. Non siamo bambini: il compito del castigo collettivo per colpa di pochi, non è una buona pratica pedagogica, anche se ancora largamente utilizzata. È proprio l’ultima spiaggia. O l’unica quando non si ha la minima idea di cosa fare.

Ecco, cari medici, giovani e meno giovani, cari infermieri e operatori tutti, ditelo che lo sapevate che sarebbe andata così. Che ci siete già passati.

Ditelo che lavorate in condizioni disumane e non solo per colpa nostra, ma perché nulla si è fatto in questi mesi per prepararsi e per concentrarsi su coloro che rappresentano le fasce a rischio, che bisognava puntare sull’ identificazione e trattamento tempestivo di tutti i soggetti fragili (anziani, pluripatologici, immunodepressi). Ogni medico di base sa quali sono e, dunque, facilmente identificabili.  Insomma, che non c’è nemmeno un piano pandemico aggiornato, ma è scaduto come uno yogurt dimenticato per anni in fondo al frigo.

Ditelo che siete al fronte, che via hanno dato l’onere di dare vita o morte, ma che siete anche l’ultimo gradino, bistrattato, di un sistema malato che vi osanna oggi e vi dà un calcio in culo domani.

Ditelo che bisognava prevenire (cerate il significato sul Treccani), intensificare una tempestiva diagnostica, ampliare i reparti, prepararsi con personale, strumenti, strutturare realmente una medicina territoriale con protocolli domiciliari tempestivi, perché fare diagnosi al telefono o su WhatsApp è roba da medium esperti… Perché questo è ciò che succede.

Ditelo che non bastano le mascherine, i lock-down e il distanziamento. Che non sono l’usbergo del contenimento ma solo un deterrente di contagio. Che serviva molto altro: perché un virus altamente contagioso, di dimensioni che possono variare fra 60 a 140 nanometri, circola anche se ci vestiamo da palombari, perché un virus circola, o non sarebbe un virus.

Ditelo che bisognava investire in DPI per i medici di base, in USCA e non in banchi a rotelle e monopattini.

Ditelo che se, talvolta, non si puntano i piedi, se non ci si informa anche da soli, se non se ne hanno i mezzi e non tutti ne hanno la possibilità, pensate ai molti anziani soli, molti vi arrivano al punto di non ritorno.

Ditelo, perché tutto questo è ciò che ci dite voi. Ma non ditelo solo a noi.

E., soprattutto, ditelo, perché se lo diciamo noi, la plebe, quelli che si permettono di pensare ed avere un’opinione, quelli che ci sono passati e hanno toccato con mano, che ci passeranno, o magari non ci passeremo mai, ci chiamano negazionisti ingrati.

E adesso, cercate anche il significato di negazionista. Perché le parole sono importanti. E la forma talvolta diventa contenuto….

Alla fine dello spettacolo, quello mio personale (lento, lungo, di quelli che ti porti dentro per giorni, che lascia strascichi e cicatrici, ma con l’happy ending) il mio pensiero è, però, lo stesso identico ante infezione. Covid ne è solo la sua conferma. E cioè che non sarebbe andato tutto bene. Ma che sarebbe stato un disastro annunciato (meno male che mi reputo ottimista) e che qualcuno (qualcuno che evidentemente ci guadagna) ci voleva, tutti, come e dove siamo. Agendo (o, meglio, non agendo), affinché lì arrivassimo. E non è solo la movida selvaggia o le discoteche o le scuole è qualcosa di più diabolico (anche perché se si temeva tanto, se si voleva far rispettare certe regole in certi luoghi, che per definizione sono luoghi di aggregazione, sarebbe stato più coerente non aprirli proprio, piuttosto che puntare il dito dopo aver concesso).  Ma questo è successo.

In questi frangenti, alla fine, abbiamo tutti torto e tutti ragione. Ognuno vede il suo male. Ma non ci accorgiamo che, invece, è collettivo, ché non siamo cani sciolti ma siamo una societas in senso largo.  E come tale, ciò che possiamo fare è invece parlare e denunciare le gravità, ognuno per come può. Io ho solo una penna e con quella posso esprimere assenso o dissenso, o fare luce sulle buone o cattive pratiche, raccogliere testimonianze. Come le vostre. Ma voi avete pienamente voce in capitolo. Ma se non ora quando?

No, non è stata una noia questa mia malattia e lungo confinamento. Ho avuto molto da fare (oltre che a sostituirmi all’istituzione scolastica in toto, per i figli a casa e questo sarà un altro capitolo). E ora sono sfinita. Senza contare che all’inizio ho avuto paura, molta paura, perché, vi assicuro, non stavo tanto bene e temevo di finire anche io nel bollettino serale. Sono sincera, me la sono proprio fatta sotto.

E in tutto questo bailamme, la mia attività lavorativa registra zero da mesi. Mi sento proprio cornuta e mazziata per dirla come direbbe la mia cara amica di Roma. Lo siamo un po’ tutti. Mal comune mezzo gaudio? No, per nulla.