Eccoci. Sapevamo che sarebbe successo. E poco abbiamo fatto per impedirlo. Peccare è umano, tergiversare è diabolico.

E anche a questo giro, i bambini ne pagano le spese e si devono fare adulti. E insegnano agli adulti. Proprio quei bambini che abbiamo sovente additato quali untori. Proprio quei bambini che non vogliamo a casa. Proprio quei bambini che non vogliamo a scuola. Non so quale sia la giusta decisione, non mi compete personalmente, ma so che non è mai stata loro.

Ma cosa ci stanno insegnando?  E a che prezzo? E, soprattutto, è giusto?

Già nella prima ondata pandemica, i bambini hanno dimostrato una resilienza che abbiamo visto non essere propria del misero mondo adulto.  Che fosse ai posti di comando, o plebe, questo non ha indugiato in comportamenti degni di un adulto, ma nemmeno di un bambino (farei torto ai bambini), peccando di autoritarismo, di contraddizioni continue, di terrorismo mediatico, per poi peccare di incapacità di gestione, di a mala conduzione, o semplicemente, rendendosi protagonista di cattivi comportamenti singoli e collettivi che vediamo ogni giorno. Ecco che in un clima malato di insofferenza e mancanza di coesione, dove tutti ci siamo contro tutti, abbiamo dato mostra della nostra piccolezza. Un popolo diviso non fa molta strada e rischia di dover essere solo comandato.  

Non siamo stati lungimiranti. Non siamo stati guida. Non siamo stati punto di riferimento. Non siamo stati niente. A parte un brutto esempio: noi che fotografiamo lo spritz e le linguine allo scoglio, che smanettiamo insulti sui social come allo stadio e minacciamo di voler togliere loro internet. Che brutta figura!

Qualcuno disse che ciò che siamo insegna ai bambini molto più di ciò che diciamo, ecco perché bisognerebbe essere ciò che vogliamo che i nostri bambini diventino…

Nel frattempo, essi ci hanno osservato. Talvolta increduli, talvolta smarriti.  Ma hanno ubbidito. Non hanno messo in discussione. Hanno seguito il diktat adulto anche quando era senza senso, anche quando lo capivano da soli, che certe cose erano senza senso. Ma sono stati zitti. Hanno incassato il colpo. Niente parchi, niente socialità, niente passeggiata per un gelato (se niente cane), niente scuola, niente danza, niente calcio, niente nonni, niente cinema, niente teatro. Niente. Il niente ha riempito le loro giornate. Nemmeno lo sforzo della didattica a distanza è riuscito a riempire in modo omogeneo questo contenitore fatto di negazione. Nemmeno impastare il pane. Nè le serate Netflix e pop corn e gli striscioni benauguranti. Non credo nella riscoperta dei valori in emergenza.  Quelli devono esserci sempre. Se li abbiamo scoperti solo adesso, allora “Huston abbiamo un problema”.

Credo, piuttosto, che abbiamo riversato su di loro anche troppo. Abbiamo vomitato tutta la nostra paura con tutti i mezzi a disposizione. Li abbiamo martellati con i numeri di un bollettino di guerra a tutte le ore. Li abbiamo privati della loro quotidianità fatta di programmazione, di piccoli gesti e azioni. Li abbiamo investiti di responsabilità. E questa è una cosa buona, se presa nelle giuste dosi. Ma per chi ha perso il lavoro, chi sa che lo perderà, chi si è trova in difficoltà perché si è ammalato, e così i genitori e magari anche i nonni, e non può fingere la famiglia del mulino bianco, ha riversato, suo malgrado, le proprie paure, le proprie preoccupazioni, le proprie insofferenze su di loro. E loro hanno assorbito come spugne.

Eccoci. Oggi ci risiamo. Non abbiamo imparato la lezione, ma vogliamo dettare ai nostri bambini, ancora, il nostro fallimento come società tutta. E loro, i più piccoli, zitti. Incassano di nuovo. Ci sopportano. Seguono le regole. Mettono le mascherine e lavano le mani. Non mettono in discussione nulla e sopportano. Sopportano una scuola a singhiozzo, sopportano quarantene a singhiozzo. Sopportano che spesso noi non li sopportiamo. Né li supportiamo in tutto il loro carico di sopportazione.

Ecco cosa ci stanno insegnando, nel loro essere inermi e dipendenti, ci stanno insegnando la sopportazione, da una parte, ma anche la remissività, dall’altra. E questo non è sempre un bene. Per nessuno.

Forse, un giorno, ci restituiranno tutto con gli interessi.

E oggi inizio a fare il mea culpa, sperando che i miei figli mi perdonino, un domani, questo presente covicentrico che troppo ha riempito i nostri giorni, che troppo ha tolto. Li abbiamo allontanati dai loro gesti. Li abbiamo allontanati dai nonni e dagli amici. Li abbiamo allontanati anche da noi. Li abbiamo martellati dalla mattina alla sera con allarmismi e bollettini, con il rischio che ora si siano assuefatti. E anche questo non è un bene.

Spero mi perdonino l’insofferenza alle quarantene, le veementi discussioni circa la le molte contraddizioni di questa pandemia, l’ansia e le preoccupazioni e limitazioni per averlo vissuto a lungo anche in prima persona, ma anche per le conseguenze economiche che (ahimè) hanno inciso e incideranno, sulla nostra quotidianità…E poi Covid, Covid, Covid, sempre e solo Covid.

Vorrei che ci riflettessimo. Credo che i nostri bambini si meritino altro. Perché c’é altro. Indubbiamente molto è cambiato, ma credo si debba guardare anche oltre alla situazione attuale, immobile e tempestata di imperativi e negazioni. Un grande passo sarebbe anche solo averne una, di prospettiva, quella che torni a parlare di futuro già oggi, perché oggi, il futuro, non riusciamo più a coniugarlo nemmeno come tempo verbale.