‌Le parole sono importanti. Hanno un potere enorme. Ci salvano, ci condannano, ci assolvono, ci distruggono, ci intossicano, di fatto ci cambiano e, in qualche caso, ci fanno ammalare.  Ed è ciò che è successo alla sottoscritta durante quest’anno di pandemia forzata; di una malattia subdola, tossica, per la quale non c’è cura o vaccino, che non abbia una “formula” morfologica o sintattica, ben precisa.

‌Sono sempre stata ossessionata dalle parole. Talvolta le osservo a lungo quando sono scritte, ne osservo la forma, la lunghezza, ne immagino il suono, me le faccio girare in testa parecchio, ne ragion il significato e il significante, talvolta ne sono ammaliata, ultimamente scossa, perché una volta che sono uscite non si recuperano più: il loro effetto domino è già partito e spesso anche il loro effetto boomerang. Una volta pronunciate, una volta scritte, non sono più solo nostre. Qualcuno le subisce, sempre, e quando a subirle è la collettività tutta, non cambiano solo i singoli, ma un’intera società. Ecco perché le parole vanno sempre maneggiate con cura. È una grande responsabilità.  Se fosse per me, istituirei il reato di “vaneggiamento”, di “falsità”, di “manipolazione e speculazione verbale”, ma si svuoterebbero strade, case e istituzioni.

In tempi non sospetti, pubblicai il libro “Quando la comunicazione va a ramengo”, un mini trattato domestico di comunicazione non violenta, un piccolo osservatorio di linguistica spiccia e filosofia da strapazzo, su cosa succede quando le quotidiane modalità comunicative verbali e non verbali, quando distorte e inefficaci e vanno ad originare infiniti equivoci a effetto domino.  Complici anche lei nuove modalità comunicative social prettamente visive: tutto passa esclusivamente attraverso le immagini, impoverendo il lessico espressivo, tuttavia semplificando il percorso comunicativo stesso, non solo dei nativi digitali, ma anche di noi dinosauri.

Oggi, assistiamo a una svolta epocale, nel quale, non solo, la comunicazione è già “andata a ramengo”, ma addirittura è stata “imbavagliata”. L’ uso improprio dalle mascherine nella sua diffusione “democratica” in senso di distribuzione, ne funge da simbolo. Ma sappiamo che simbolismo e forma diventano automaticamente contenuto con il reiterarsi della loro proiezione. Resta la voce autocratica di chi può parlare. Che si nomina gestore, garante e condottiero dei nuovi simboli. Che sceglie, e obbliga, all’ascolto e all’uso di un nuovo linguaggio. Di scopo. Violento. Pericoloso. Un percorso inverso, rispetto a ciò che era fino solo ad un anno fa. Dall’immagine siamo, tornati, invero, all’uso delle parole. Ne sono state spese tante, ma solo alcune sono state scelte accuratamente, ripetute in modalità martellante, tanto da diventare di uso comune e trasversale a qualsiasi età e livello socioculturale. Persino la nonnina della porta accanto è n grado di capire e utilizzare un gergo pseudoscientifico, militare, medico come se lo avesse sempre masticato. Ciò che, forse, ignora è l’effetto collaterale a lungo termine (anche a scelta di “effetto collaterale” è frutto di questo fenomeno. On ne sono esente).

Avete notato che i post sui social da un anno in qua hanno rotto con la regola della brevità? Adesso si scrive e si legge anche messaggi più lunghi di quanto vorrebbero i paradigmi social. Fino a non poco tempo fa, girava il post “se sei arrivato a leggere fino a qui senza foto…etc”, come se la lettura di un certo numero di cm di testo, non corredata da foto, fosse impresa iniziatica per pochi. Ma non è stata una conquista, è stata una regressione. Perché la brevità è stata sostituita dal martellamento verboso di linguaggio pericoloso, subdolo e manipolatore. Orrifico. Ma enormemente attraente.  Ed è un meccanismo mentale potente. Lo stesso per il quale siamo attratti da un thriller o da un film dell’orrore o dalla stessa cronaca nera.  Meglio sarebbe stata la narcotizzazione e il silenzio assoluto.

Il vocabolario quotidiano, già povero di suo, è stato paradossalmente arricchito da nuove parole ed espressioni, velocemente inflazionate e abusate, che un tempo erano legate ad ambiti non propriamente quotidiani o popolari ma più precisamente del gergo militar guerresco di carattere sanzionatorio, o punitivo e di regolamentazione (lotta, guerra, fronte, prima linea, assembramento, coprifuoco, obbligo, misure cautelative, dovere, incarico, missione, vincolo, imposizione, ordinanza, provvedimento, regolamento, proroga…), di negazione (divieto, sanzione, distanziamento …), concessivo (via libera, concessione, permesso, eccezione, ad esclusione…). L’elenco è lungo e tutti lo conosciamo. Un giorno mi metterò ad elencarle tutte.

E cosa è successo? Che abbiamo avvallato e sdoganato questo linguaggio accettandone l’utilizzo nel quotidiano come fosse cosa normale. Tutti. Nessuno escluso. Con ogni mezzo ed in ogni luogo: TV, testate giornalistiche, social, la piazza, la scuola, il focolare domestico. Il tutto ben annaffiato dall’elemento del comun denominatore che, pur nel distanziamento, unisce: la paura. Altra parola che si fa cosa. Che diventa sostanza. La paura di morire, la paura di ammalarsi, la paura di prendere una multa, la paura di essere giudicati, additati, non conformi, la paura di dover fare alcune cose e la paura di non poterne più fare altre.  La paura di vivere, alla fine.

Coloro i quali non si adeguano a questo nuovo linguaggio, a questa nuova narrazione (l’unica concessa), rischiano di ammalarsi per intossicazione. Si ammalano dentro. Perché corpo e mente sono una cosa sola e il fenomeno non è più solo emergenziale ma diventa stato. Ecco, che anche la parola stato ha un suo perché. Esso può essere transitorio, permanente, indicare un’istituzione o qualcosa che non è più, quando è participio passato.  Far credere che il significato di qualsivoglia e accezione di questo linguaggio, oggi, sia solo transitoria è un gioco di manipolazione riuscitissimo, che salta agli occhi anche ad uno scolaro elementare. E’ il mutamento semantico del nuovo linguaggio di massa, che non ha mai fatto parte della cultura di massa (se non in periodi nefasti) e che fa leva sui concetti guida delle masse, di sempre, tra cui, appunto, la paura, il sospetto, l’indignazione. E che divide e allontana. E’ l’esperimento sociale riuscito. Come è sempre riuscito, se si studia un po’ di storia, quando attecchisce l’uso e l’abuso di un set di parole ed espressioni che, quando diventa martellante, diffuso e in un tempo protrattosi nel tempo, è in grado di contraffare la percezione della realtà, cambiando di fatto la società.

È la nuova normalità dell’orrore semantico.

Ma le parole sono importanti, creano muri o mettono le ali. Per ora stiamo costruendo barricate e personalmente, sono ancora alla ricerca delle parole giuste per sfondare il muro che mi è stato costruito intorno. Fino ad allora mi sentirò in trappola, intossicandomi sempre un po’ di più, ogni giorno.

Per chi lo volesse il mio libro è ancora in vendita anche su Amazon.

“Quando la comunicazione va a ramengo”