La scuola sembra una serra. Piena di verde. Luminosa. Il dipartimento di scienze farebbe gola ai nostri ricercatori. Dalle aule di musica arrivano le note un po’ stonate di chi sta provando. Dall’ala destra proviene l’odore di cloro della mega piscina. Io sono in attesa al colloquio professori in Scozia. Con mia figlia. Perché qui partecipano anche i ragazzi. E vuol già dire tutto.

Il leit-motive è il benessere, la partecipazione, l’impegno. Ed è tutto positivo: “Marta ha telento”, “Marta è rispettosa”, “Marta è attenta”, “Marta è benvoluta da tutti i compagni”, “Marta farà sicuramente bene negli esami di quest’anno, stia tranquilla signora, è nelle nostre mani”.
Io seguo basita e mi do un pizzicotto. Forse ho capito male. “Marta ha questi punti di forza bla bla, sì, è timida, lo sappiamo, ma sta uscendo piano piano dal guscio e noi siamo qui per tirare fuori il meglio da quel guscio sorridente e un po’ silenzioso “.
Sono basita e passo da una stanza all’altra incuriosita e vorrei tornare a scuola anch’io. Mi casca l”occhio su gruppetti di studenti che chiacchierano allegri e salutano Marta con frasi e gesti che solo loro capiscono. La porta aperta della bibloteca mi invita a curiosare: alcuni fanno disegni di arte, altri studiano sui libri o sugli ipad dati dalla scuola. Non c’è silenzio assoluto, ma nemmeno baccano. Non ci sono zaini pesanti. Solo tracolle e zainetti. La scuola fornisce tutto: quaderni, dispense, colori, penne. E ipad. I compiti a casa non sono una priorità. Non li danno. Se non raramente e in vista degli esami. Copie di fac-simile di prove d’esame. E questo ha senso. Almeno sai cosa ti aspetta.

Finisco, sempre più basita, nel colloquio con il preside: quarantacinque minuti. “Vedo Marta tutti i giorni”, dice.
Eh già, perché li il preside gira per le classi e li conosce tutti. È all’entrata e all’uscita e dà una pacca a tutti quanti. Visto con i miei occhi di osservatrice italiana ha dell’ incredibile e penso di stare su un altro pianeta! Roba da fantascienza. Ma no, sono lì, nel suo studio e mi dice ” se fossi in lei sarei orgogliosa di  una ragazzina quattordicenne (ora ne ha 15), che viene da lontano, entra qui dentro, e in poco tempo, è già perfettamente integrata con i compagni scozzesi come se fosse sempre stata qui, malgrado nuova lingua, nuova scuola, nuovi compagni e senza i genitori”.
E aggiungiamo pure la dislessia, la discalculia, il mutismo selettivo, l’ansia…Ma pare sappiano come fare, senza chiedere, senza suggerire, senza PDP, senza leggi.
“Insomma, guardi il report, Marta va bene a scuola. E qui è tutto gold, cioè ottimo. E noi siamo felici che sia qui”.
Sogno?
Poi la chiama per condividere il tutto e vuole sapere da lei come la pensa, come si trova con gli amici, con la host lady, si preoccupa che stia bene perché “l’apprendimento passa solo se c’è salute e benessere”, una di quelle frasi che pensavo ormai vuote di significato, che ho fatto mio cavallo di battaglia (inutile) in Italia. Ormai richiusa nel cassetto delle cose belle e irrealizzabili. E il cassetto si riapre.
“Sappi che io sono sempre qui e la mia porta è sempre aperta”, le dice. Ed è credibile. Perché è tutto un andirivieni di studenti.

Esco e ho una sensazione di benessere generale. Mi sento leggera. Soddisfatta e tranquillizzata. Ma, poi, squilla il telefono e l’altra figlia in Italia è in panico per i compiti di geografia, inglese, spagnolo, matematica e arte. Dopo 8 ore a scuola. Non sa se c’è la farà e deve saltare di nuovo danza. Il piccolo, alle elementari, ha già fatto italiano, matematica e storia. Solo perché è così noioso che vuole disfarsene subito per rimettersi a costruire il Titanic con i nano block o leggersi la sua enciclopedia sull’Universo. Tutto è sempre fatto con ansia e fretta, demotivati, senza pensare. E io mi arrabbio, ma poi capisco che è così ché non c’è tempo per pensare, perché ce ne sono troppi e si deve passare alla materia successiva. Non importa il perché, non importa il come delle cose. E si resta sulla superficie. Si deve solo pensare a galleggiare.
Perché non ci fermiamo, facciamo meno quantità e piuttosto ci soffermiamo su altro, come chiedere anche il loro punto di vista? E soprattutto il perché del loro punto di vista? Sarebbe molto responsabilizzante e li riporterebbe a centro del loro universo. Qui, scopro che è tutto un mettersi in discussione. In Italia li mettiamo sempre e solo in discussione. È il soggetto che cambia. E fa una grande differenza. Intanto li perdiamo di vista. Talvolta li perdiamo per strada, perché il fare per fare, le nozioni su nozioni, nel solo modo dato dall’alto, autoreferenziale, li disperde nel grande mare del sapere. E l’apprendimento ariva solo a metà. Non si identificano con quel mare, ne sono in balia.  E, alla fine, resta solo la sensazione di sentirsi a posto: ho recitato il mio rosario e aspetto la sveglia delle 6.50, per ricominciare le litanie. Senza farsi domande. Con fede.
Ed io vengo riscaraventata per terra, dopo aver respirato l’aria frizzante e leggera di “altrove”. Dove ho toccato con mano una scuola studentocentrica e inclusiva, nel vero senso della parola. Senza slogan, senza proclami, senza tante menate.
Peccato. E gioisco solo a metà.