Un giorno qualunque di arancione certificato.

Mi ero dimenticata della città. La dimensione provinciale è fatta di altri ritmi, di altre luci e di altre ombre: quelle naturali, tanto che la città, oggi, mi sembra un’entità geografica a parte.  Un luogo altro, dove la vita, o almeno quello che rimane, inzuppata dalle cangianti e strombazzate regole dei DPCM quotidiani, sottostà alla legge del caos. E con esso anche il buon senso.  Eppure, me ne sono andata solo pochi mesi fa. Come posso aver già dimenticato? La mente è meravigliosa. E io ho già voglia di tornare a respirare iodio e solitudine.

Il mio ritorno in città sfrutta una delle varie necessità imprescindibili, in deroga al decreto, come una visita specialistica e, ligia, compilo la certificazione, seppur con nessuna convinzione, se non quella di evitare possibili discussioni, che poi rischio la denuncia, (conscia del fatto che quasi nessuno a fa, perché nessuno te la chiede). Poi, come suole ogni occasione, essa si allarga a commissioni più o meno, meno necessarie, visto che nel paesino esiste solo un alimentare e se ti servono le mutande durante le festività, rischi di aspettare la consegna a Gennaio inoltrato, anche con Amazon. Vado per comprare un giubbotto per figlia n. 1, quella che non è normale, perché a sedici anni non si compra mai niente, nemmeno sotto tortura; odia fare shopping anche quando lo shopping non è più shopping, ma necessità, (appunto non è normale) e io mi ritrovo a farlo per lei. Il negozio, il classico store per ragazzi, con clima tropicale, è in realtà un girone infernale con code alle casse in un horror vacui spaziale, come non ci fosse un domani. Alla faccia del distanziamento. Pare che qui i decreti multicolor, ormai, non se li fili più nessuno: in primo luogo gli esercenti che invece di operare un minimo di controllo al quale sarebbero tenuti, fanno entrare cani e porci esattamente come prima della pantomima pandemica.  Ma siamo italiani, lo stesso negozio della medesima catena, altrove, ha il contapersone all’ingresso e non permette di provare la merce, il che, se può essere irritante e sconveniente, è almeno coerente con le fantasiose linee guida anti-contagio, consigliate un po’ da tutti i paesi e, per ragioni di indole locale, decretate ufficialmente nel nostro. Ma se fatta la legge, trovato l’inganno, fatte troppe leggi, non si fa ingannare più nessuno. Qui, i camerini sono peggio di un mercato asiatico e greggi scomposte di minori si comprimono per farsi selfie e video tik tok con le più svariate mise, che, poi, non acquisteranno nemmeno. Data l’aria viziata che tira, decido che il resto delle commissioni è rimandato a data da destinarsi (ad esclusione delle mutande), perché inizio ad avere la nausea da ressa e il rifiuto da massa umana, quella che la città sembra aver vomitato da ogni dove, proprio qui dove devo andare io. Inoltre, subentra il sentimento predominante di questi mesi, che coincide con inizio pandemia: mi sento presa per i fondelli. I bus sono ugualmente pieni, anzi, con la storia dei posti alternati sono un carnaio di gente in piedi.
I treni regionali anche peggio. Sono ancora quelli degli anni ‘80, sporchi e fatiscenti, come sempre. Di cosa vogliamo parlare? Di mascherine e igienizzazione?  Sono in uno (S)tato sporco dentro e fuori. Mafioso fino all’osso, che inneggia al vaccino e ancora non sa andare oltre a santa madre tachipirina. Un terzo mondo conclamato. Dopo un viaggio su questo carro ti devi derattizzare fin dentro l’anima, per non dire altro. Proprio come ai vecchi tempi. Ma senza nostalgia.


Sono irritata. Soffoco. Quaranta gradi e una pletora di gente. Ma non dovevano lavorare da remoto? Non dovrebbe esserci la limitazione alla mobilità nel capoluogo? Mah. Sono irritata e la spossatezza che ho ancora dopo quasi tre mesi, mi ricorda che a rigor di logica potrei anche abbassarmi questa mascherina sgualcita e respirare a pieni polmoni l’aria stantia, ma non mi viene concessa tregua e brancolo nelle contraddizioni e nei paradossi che ormai sono sotto agli occhi di tutti, dalle pessime pratiche cui assisto oggi, agli slogan tipo lontani ma vicini e il covid a giorni dispari con disco orario. Rivendico il mio patentino di immunizzazione almeno per un giorno, non appena tocco terra, nel mio nuovo territorio battuto dal vento e dal mare, che dopo le 18 è più desolato della Terra Desolata di Eliot. Ma ad oggi, chi si immunizza con malattia certa, vale meno di chi si vaccina con vaccino incerto.  Anzi, se sopravvive, ed è la maggior parte, quasi dà fastidio. Non va a fare né numero né spettacolo. Settimane di reclusione, otto tamponi e magari qualche danno collaterale permanente, verrà sorpassato dal forellino vaccinale. Cornuti e mazziati? Sì, ma pur sempre vivi. Vi prego vaccinatevi tutti e facciamola finita. Tanto il virus non farà più notizia solo quando decideranno che così dovrà essere e solo la grana parla: follow the money. Come per ogni cosa.
Mentre penso questo, osservo la mia la città che si allontana e sgomita per rivendicare la sua bellezza, tra le luminarie natalizie che ne rallegrano il lato pandemico.

Genova sa sempre riscattare sé stessa, suo malgrado. E malgrado tutto.