NARRAZIONI AI TEMPI DEL CORONAVIRUS. UNA STORIA DI LIBERTA’

Ci sono narrazioni e narrazioni: le narrazioni mainstream, martellanti, che talvolta si contraddicono, confondono e dividono e, poi, le narrazioni intime, che, invece, sono sempre vere da qualsiasi parte tu le legga. Tutte. Sono quelle dei numeri che invece sono persone. Di tragedie che sono solo personali. Di solitudini. Di paure. E ognuno ha le sue.

La mia oggi è questa. Una piccola storia di illegalità, di trasgressione, di colpevolezza innocente, di un dilemma annoso, che si è sciolto. Una storia di libertà.

Ho rivisto mamma e papà dopo ben 37 giorni di clausura. Sì, mi sono allontanata di 3,7 chilometri. Ben oltre il permesso raggio d’azione, seppur con certificazione alla mano: “assistenza a genitore disabile”. Una bugia bianca, perché di fatto fino a ieri non lo era, perché di fatto, non appena peggiora, non appena deve cambiare terapia, non appena finiscono i pannoloni, le medicine, non appena il badante si ammala o va in ferie o si licenzia, questo è.  Le cose cambiano. E quando non vanno più tanto bene, anzi, quando vanno proprio male, è lì che tu devi essere: i problemi vanno accolti e gestiti. E così gli affetti. Non sono stati anni facili. Ma è una ruota che gira un po’ per tutti. E poi arriva lui: il Coronavirus e noi siamo già stanchi. Molto stanchi. A cavallo di esaurimento e depressione e, anzi, siamo già in ospedale. Da un po’. Ne usciamo in mezzo alla pandemia e ci salutiamo tra mascherine e finte distanze, nostro malgrado, per chiuderci nelle nostre solitudini organizzate. E nelle nostre paure. Da soli. E con il pensiero sempre pesante: chissà se ne verremo fuori. Ancora tutti. Poi il pensiero vola alle piccole cose quotidiane, chissà se oggi ha mangiato, se gli hanno dato tutta la terapia, se riesce a bere e non ricadere in disidratazione, se ha la glicemia alta, la pressione alta, se non si è strappato la flebo del farmaco, se è riuscito a fare pipì, popò, se respira, se dorme, se è vigile o se è di nuovo nel suo mondo impenetrabile. E io non ci sono. Io che saprei come fare. Io che mi fido solo di me stessa. Io che al telefono non mi tranquillizzo, perché non vedo. Io che al telefono non posso parlargli perché lui non parla.

E, anche se so che è in buone mani, oggi decido che basta, c’è un limite a tutto. Ed esco.

Esco e non mi sento minimamente in colpa.

Genova, fotografia di Raffaella Maini

Io non ho l’auto né lo scooter e i 3,7 chilometri di centro città, li copro a piedi per evitare eventuali contagi da mezzi pubblici. In strada non c’è quasi nessuno: respiro lo smog di auto, bus e motorini, filtrato dalla mascherina, perché di quelli ce n’è una quantità che non avrei nemmeno immaginato. La città dà ancora timidi segni di vita, nonostante tutto. Incrocio una signora con un irrequieto Border collie e non si sposta inorridita dalla mia presenza. Prosegue. Cammino e mi sento pulita. Dopo settimane di chiusura totale, mi sento pura. E libera. Cammino, ma devo imparare di nuovo a camminare. E a gestire la luce del sole che oggi è prepotente e calda. E mentre cammino penso. Perché camminare fa proprio questo.

L’ ultima volta che ho visto papà era il 9 marzo, quando fu dimesso dal Policlinico. Io ero lì. E, per giorni, ho respirato la sua stessa aria di, a, da, in, con, su, per, tra, fra coronavirus vari. Senza alcun dispositivo di protezione. Non andavano ancora di moda. Ma guai a non esserci. Non avrei dormito di notte. E nemmeno lui. La sua mano teneva silenziosamente stretta la mia e mi diceva “Resta qui”, quando all’orecchio cercavo di scandire le parole” papà devo andare a casa, adesso”.  Il tempo, per noi, è rimasto sospeso ben prima del lock-down. Nei dubbi e nelle incertezze, che si alimentavano di speranze ad ogni accenno di miglioramento un giorno, per crollare il seguente. Papà, così fragile, nell’immobilità del corpo e così perso nella sua mente, combatteva già con la polmonite da un paio di mesi. Ma non è stato fatto alcun tampone (“a che serve” mi disse il medico…!). Poi si ammala la mamma e poi il badante. Tutti guariranno, per fortuna. Intanto resto io che mi ammalerò esattamente la sera delle dimissioni. Non si sa di cosa, perché non ho febbre, ma per otto giorni fatico ad alzarmi dal letto, sono spossata, ho dolori lancinanti all’addome, nausea, affanno, battito accelerato e inappetenza. Ma chissenefrega dell’inappetenza, il mio adipe può sopperire per giorni. Tuttavia, non essendo sintomi tipici da coronavirus, il medico, al telefono, mi liquida piuttosto scortesemente. Allora inizio a curare i sintomi come posso e mi isolo, più per necessità che per decreto. Poi ne esco, ma non esco, perché siamo tutti in lock-down.

Alla fine, forse abbiamo tutti contratto il virus, come molti altri, ma non lo sapremo mai e proseguiamo i nostri giorni nel timore e nelle incertezze di tutti. Come tutti. E nella legalità. A cui tuttavia non credo.

Ma questa è solo una prima narrazione.

La narrazione vera è che siamo un popolo di disgregati paranoici, divisi da decretazioni punitive e  interpretazioni distorte, malefiche declinazioni di benefici provvedimenti e vanificazione degli stessi . Mistificazione e speculazione. realtà e fantascienza. E io sbuffo, sbotto, ma continuo nella mia reclusione come tutti. Per rispetto.  Non mi avvicino ai miei vecchi e non faccio avvicinare i miei figli. Per sicurezza. Ognuno confinato nei propri pensieri. Per necessità. Ma la sofferenza cresce di pari passo all’insofferenza, perché papà, è una foglia d’autunno.  E il dilemma è dietro l’angolo: cosa conta di più? E’ come il farmaco e le sue controindicazioni: a leggerle, passa la voglia di curarsi. Qual è il rapporto beneficio e rischio? Quale, infine, la giusta cura? Forse solo la relazione. Ma non esiste relazione a distanza, quando la distanza può essere coperta solo dal linguaggio non verbale, dal tatto, dalla fisicità di una carezza e di un abbraccio. Ecco, che il distanziamento imposto per decreto, si aggiunge alla distanza della malattia che lo vuole già lontano. Presente e assente. Dove esiste solo ciò che vede e sente. Ma lì, in quel momento e non altrimenti. Dove la presenza è esistenza.

Papà è “Vigile ma disorientato”, ci hanno sempre detto. Una diagnosi che suona come un mantra. Papà, ti guardo. Tu mi vedi e sai. Sai molte cose che non esprimi. Esprimi molte cose che noi non sappiamo. L’intera pellicola è nei tuoi occhi di sempre, non molto diverso da sempre. Una pellicola di mare. Chissà quante volte lo hai navigato, se la profondità di questo mare, il tuo mare, è ancora dei tuoi occhi. Di questa profondità, il blu è ancora dei tuoi occhi. L’orientamento, invece, manca. “Vigile ma disorientato…Vigile ma disorientato…”. Ha nomi scientifici ma per me è solo l’Ultima Saggezza. Di chi ha osservato a lungo la linea retta dell’orizzonte e poi scorge la terra in lontananza. A occhio nudo. E con l’avvicinarsi è più nitido il profilo e più chiara la certezza che non fossero solo umidi addensamenti. E può finalmente essere sé stesso. Folle è colui che pensa di orientarsi in tale sconfinatezza, di essere vigile e orientato di fronte all’infinito, di fronte all’ignoto. Assopiti e orientati, diretti in ogni cosa, seguono, gli uomini di terra, senza vastità negli occhi, le proprie ombre. Sì, “vigile ma disorientato” è l’Ultima Saggezza. Perché agli occhi, l’infinito sbilancia. Disorienta. La linea dell’orizzonte non è mai retta. E il profilo della terra lontana si scorge, un giorno e solo per caso.

E, alla fine, per un attimo, il suo sguardo blu non è più perso nel suo grande mare. Mi vede e accenna un sorriso. E me lo prendo tutto. Ma viene presto sostituito dalle sue lacrime silenziose, mentre lo saluto ancora una volta e, abbracciandolo, gli dico nell’orecchio “papà devo andare a casa, adesso” e cerco di uscire dalla porta senza voltarmi.

Questo vale più di mille parole. Vale ben più di una sanzione amministrativa.  Anzi, è l’unica cosa che in tutto questo, a dire il vero, vale.

Mentre mi incammino per i miei solitari 3,7 chilometri di ritorno a piedi, piango. Anche io in silenzio. E mi ripeto “tornerò”. Forse già domani. E poi ancora e ancora.

Se lo vorrete, ora potrete anche condannarmi. Ma io mi sentirò libera lo stesso.