Ma siamo sicuri che ne avevamo davvero bisogno? Bisogno del pensiero ipocrita buonista? Bisogno di sentirci dire che l’umanità se l’è meritata, che questa pandemia che sta stravolgendo le nostre vite, causa migliaia di morti e affossa l’economia, porterà invece a farci comprendere nuove priorità, nuovi valori, e farci diventare tutti più buoni e fesserie del genere?

No, io non avevo bisogno del virus per cercare di essere una persona migliore. Caro pensiero mainstream, io ci lotto da molto prima, anche se sicuramente con scarsi risultati, ma non avevo bisogno di arrivare ad avere paura di morire, per pensare di dovermi riappropriare di certi valori. O per cercare di riappropriarmi di un mio tempo, o di un tempo qualitativo con i miei figli. Parimenti, l’idiota che era idiota, resta idiota e dopo la catastrofe, non può che essere doppiamente idiota.

Ho cambiato la mia vita tante volte, ho cambiato lavoro, casa, regione, modus operandi, e ancora sono in corsa, in una corsa ad ostacoli contro il sistema, per rincorrere, talvolta contro corrente, quei valori che erano già dentro di me, dentro di noi come nucleo famigliare. E ho scoperto che no, questo virus non serve a nulla. Toglie. Toglie solo e, quando aggiunge, sono solo ostacoli. Toglie la libertà di azione, e soprattutto di pensiero, ormai soggiogato al pensiero unico fatto di mezze verità a di mezze fake news e dove porsi domande, oggi, è complottismo. Dove la censura è dietro l’angolo in nome dell’emergenza. Dove la messa in discussione viene rimandata ad un fantomatico ‘poi’.

Non avevo bisogno di un virus per riscoprire l’importanza delle relazioni. Perché il virus, i rapporti li inasprisce, laddove erano già deboli e usurati. Per contro, non rinforza ciò che era già forte. Ma, ancora, toglie.

Toglie gli affetti dei nostri vecchi, isolati dalle chiassose presenze domenicali dei nipoti, lasciati ad affrontare le proprie paure da soli. Troppo spesso ce li toglie proprio, perché se ne stanno andando come foglie d’autunno anzi tempo.

Questo virus allontana. Isola.

Ma in questo scenario apocalittico, non riesce a mutare una cosa: LA SCUOLA, che nella corsa alla digitalizzazione ha solo digitalizzato i medesimi modus operandi obsoleti della lezione frontale e del lavoro domestico, il cui concetto non cambia anche se sotto le parvenze di una sfilza di link, che fa tanto figo. Ha, similmente, aumentato la discriminazione sociale, ampliato la ferita del divario già presente, decentrato ancor più gli apprendimenti. Alle famiglie.

Questo è solo un altro treno perso, per poter ripensare come singoli e come sistema, il modo di EDUCARE, forse l’unico, che è quello di rendere i bambini il centro del loro mondo, PROTAGONISTI, responsabili del proprio crescere. PRESENTI e non più trasparenti, per imparare ad imparare a fare anche da soli. Perché, che lo crediate o no, loro hanno un proprio pensiero. Se solo volessimo ascoltarlo.  Ma no, la costrizione attuale impone che l’adulto sia ancora più presente. Ingombrante. Di controllo.

Forse, è tempo di lasciare che ci sia quel tempo vuoto per riflettere. Insieme. E da soli. Forse è tempo di imparare, una buona volta, a CONTESTUALIZZARE gli apprendimenti, in questo QUI E ORA così forte e incerto, per cercare di capire, per avvicinare, per renderli partecipi.

Ma è anche il tempo di fermarsi per ACCUDIRE, per ASCOLTARE una buona volta le loro voci, per capire quali sono le loro PAURE. Quali sono le loro SPERANZE. Perché mai come ora devono essere ascoltate.

Per provare a dare risposte, per non nascondere, per dire, anche, magari, scusate ma ci siamo sempre sbagliati, proveremo a fare diversamente. Da oggi inizieremo ad ascoltarvi sul serio.

Perché è questo che i bambini vogliono. Ce lo chiedono, ma noi, imperterriti, andiamo avanti come si è sempre fatto, altresì perpetrando nell’azione di riempimento dei vasi, come se niente fosse, nel nome di un presunto mantenimento della quotidianità.

Ma vedete, c’è una cosa: questa quotidianità non c’è più. Ve ne siete accorti? Forse, ora, è davvero opportuno darsi una mossa.

Non mi serviva un virus letale per amare di più, volere bene di più, fare famiglia di più, perché sono altamente imperfetta e non ho ancora trovato la ricetta perfetta. Insomma e da mo’ che sono alla ricerca. E questo momento mi è solo di intralcio. Ma capisco che ogni momento, anche questo, è buono per rimettersi in discussione ancora. E ancora.

E’ che a me questo virus fa solo paura. Non lo vivo bene per niente. Anzi lo vivo maluccio e non faccio mostra di ottimismo ipocrita. La consapevolezza dell’incertezza della condizione umana, si somma all’incertezza tangibile del quotidiano. Vivo nel terrore dei miei vecchi anziani e disabili, così precari nelle loro molte patologie. Spero che non si ammalino, o che gli ospedali si svuotino per accoglierli, quando dovesse accadere che ne hanno bisogno. Ma i rischi sono più alti delle speranze. Ho il chiodo fisso di cosa succederebbe ai miei bambini, senza altri punti di riferimento, nel caso noi dovessimo ammalarci noi. Vivo lo sconforto di non avere più lavoro per quest’anno e chissà per quanto. Oppure, di sapere una figlia adolescente in un paese lontano che non riesce ad essere rimpatriata in Italia. E in tutto questo, tuttavia, la percezione dei miei valori non è cambiata per nulla rispetto a prima. Ma sì, ho altro per la testa da affrontare (e ho come la vaga sensazione di non essere l’unica!) e questo non coincide con l’ansia da prestazione da compiti o da connessione.

I nostri bambini stanno imparando qualcosa di molto più grande di loro. Ma altrettanto importante. Ma questa lezione va presa sul serio, non va né sminuita nel suo significato, né subita. Va spiegata bene. Dobbiamo cercare di dare un senso anche se non vi troviamo senso. Forse è questa, l’unica nota positiva. Anche se glielo avrei risparmiato.  Perché forse ci saremmo potuti arrivare lo stesso anche senza i traumi da quarantena. Anche senza paura di morire ogni giorno. Anche senza vedere morire ogni giorno. Perché questo è.  Perché siamo in guerra.  E ci sarà tutto da ricostruire. A partire da noi stessi. E soprattutto, perché questo loro lo sanno. Loro sanno tutto. Ci guardano. Ci osservano. Ma fanno finta di niente per fare finta che non sia, per non farci preoccupare, perché sanno anche, che abbiamo più paura di loro.

Per cui, basta fare finta di niente.

Basta vigilare il riassunto del Decameron. Voglio prepararmi alla battaglia. Magari anche CON il Decameron, CON la Divina Commedia, CON il pensiero critico e CON la contestualizzazione di cui hanno bisogno.

Voglio prepararmi alla nuova sfida. Perché, comunque vada, domani, non sarà mai più come prima. E se non ci prepariamo adesso, se non li prepariamo adesso, se continuiamo a fare finta di niente, sarà molto, molto dura. Perché il cambiamento è sempre un rischio, non sappiamo come può andare a finire, ma non cambiare è un rischio ancora più alto, perché sappiamo bene come invece finirà. E sarà un disastro.

Ma non ho verità, non ho strategie certe, non ho armi, non ho soluzioni pret-a-porter, non ho messaggi di ottimismo, non ho nemmeno la luce del sole che lo alimenti, in questo buco del centro storico senza luce, senza terrazzino, senza orizzonte, ma so cosa voglio.

Voglio FERMARMI, accogliere anche la paura, elaborarla e PENSARE. Vorrei che lo facessero anche i bambini.

Pensare al CAMBIAMENTO e agli orizzonti nuovi che vedremo, con i mezzi che abbiamo oggi, affrontando l’oggi, senza fare finta che sia tutto normale. Perché non lo è.

Ma, soprattutto, INSEGNARE AI MIEI FIGLI A PENSARE sé stessi e il futuro alla luce del qui e ora, di questa dovuta, ma disastrosa quarantena, per affrontare il poi.

Credo di doverglielo.

PENSARE BENE ADESSO, PER PENSARE BENE DOPO.

E, comunque… think positive. Che ci sta sempre bene. 😉