Perché per fare bene la locandiera, talvolta, è questione di vita o di morte.
…Mi chiudo la porta alle spalle. Il battito cardiaco è accelerato. Guardo l’orologio. Sono le 23.48. Ho dodici minuti. Solo dodici minuti per compiere il mio dovere.
Un passo indietro.
Con arroganza il nuovo ospite e gruppo chiede di fare il check-in anticipato. Nel senso che si presente con tre ore di anticipo. Glielo accordo, ma è riluttante a presentare i documenti. Sonno stanchi dl viaggio. Va bene. Tornerò. Ma il terrore del serial killer non mi aveva ancora sfiorato. Almeno non fino ad oggi. Scrivo, chiamo, whatsappo con gentilezza per richiedere i documenti. Farfuglia scuse. Non è bello. Cos’ha da nascondere questo signor Mendez, Californiano di confine?
Aspetto ancora. Scrivo. Chiamo. Whatsappo. Con gentilezza ma ritmo ossessivo. Farfuglia ancora scuse. Fino a che l’orologio non supera le 23. Solo un’ora alla mezzanotte mi separa dalla possibilità di registrare gli ospiti e compiere il mio ultimo dovere dopo aver pulito, lavato, stirato, infiocchettato per bene le camere, fatto marketing e public relations. Insomma, un ultimo importante dettaglio. Può essere un serial killer o un corriere della droga, che importa, io devo registrare per essere a posto con la legge. Ventitré e quindici. Sono sola. Non so che fare. Azzardo ipotesi circa il diniego, ma nessuna mi piace. Quella che mi farà muovere le gambette, tuttavia, non sarà la più pesante -potrebbe essere anche un serial killer- ma la molla del rispetto e della legalità. Sono già in pigiama, ma mi rivesto di tutto punto. Comoda con scarpe da ginnastica ai piedi. Non si sa mai. Decido di andare sul luogo del delitto…cioè all’appartamento che hanno affittato. Entro ed esco mille volte dalla porta di casa, perché dal nervoso, mi dimentico sempre qualcosa. I moduli di registrazione. Rientro per i moduli e dimentico il cellulare sul tavolo, dove avevo preso i moduli. Rientro per il cellulare e mi ridimentico i moduli. In un balletto entra ed esci fino a che riesco ad uscire con tutto. Il paese, che brulicava di turisti da ogni parte del mondo, è avvolto in un buio silenzio ovattato. I bar stanno chiudendo, i ristoranti hanno già chiuso da un bel po’. Mi avvio a passo felpato. Entro nel portone verde. Due rampe di scale. Li chiamo al cellulare per non essere invadente. Nessuna risposta. Citofono una volta, due volte, tre volte. Ogni volta sempre più a lungo, tanto che il tasto rimane incastrato e non smette più. Con l’unghia cerco di tirarlo fuori e ci riesco. La luce dell’appartamento filtra dalle porte antiche. È accesa, ma si sa, gli ospiti la lasciano sempre accesa, tanto mica la pagano loro. Penso che se la luce è accesa, due sono le alternative: o sono in casa o sono ancora fuori ad ubriacarsi fino a che l’ultimo bar non chiude, per poi barcollare cercando la casa che non sanno più dov’è, inciampandosi sul selciato, vomitando nell’aiuola, sprofondando in branda senza nemmeno disfare il letto. Allora mi fiondo giù per e scale. Cerco in tutti i bar che stanno chiudendo. Ormai gli avventori si contano sulle dita di una mano. Nessuna traccia. Guardo l’orologio e sono le ventitré e trentacinque. Tic-tac tic-tac, il tempo passa. Il silenzio aumenta. Che faccio? Sono risoluta. E sta montando il senso di giustizia. Risalgo le due rampe e mi riattacco al campanello. Niente. Eppure, con tutto quel baccano, si sarebbe svegliato anche un Grisly in letargo. Decido di irrompere per capire se ci sono problemi. Ho il timore, che se trovo qualcuno, non la prenderanno bene. E ho ragione. Ma è sempre casa mia, e fino a prova contraria, loro non hanno dato i documenti. Sono nel giusto, penso. Ma non ne sono sicura. Il mazzo di chiavi con le nove chiavi di portone, portoncino, porta, moltiplicate per il numero delle strutture, mi fa dannare l’anima, perché non becco mai quella giusta al primo colpo. Di solito è al nono. Stasera la becco al terzo. Che culo. Non faccio in tempo a palesarmi che mi si fionda quasi addosso lui, il Grisly di quella combriccola strampalata: uomo bianco (forse olivastro), brizzolato, un metro e novanta circa. Mi intima qualcosa in un inglese stentato. Sventola le braccia e farfuglia ancora. Ma il tono e i gesti non sono certo di benvenuto. Mi sento come in Hawaii Five-0, solo che invece di essere sulle spiagge di Aloha, siamo alle Cinque Terre. Noi non abbiamo le palme, ma i pini marittimi.
“Favorisca i documenti…”, sono entrata un po’ troppo nella parte “…mi scusi se è tardi, ma adesso ho davvero bisogno dei passaporti per la registrazione”.
“Se ne vada, non può venire qui a quest’ora e svegliare tutti”. O almeno credo sia questo che sbraita, perché non ci devo essere andata troppo lontana circa il barcollare, ecc., ecc. E ‘visibilmente alterato. L’occhio è iniettato di sangue e non so se più per la birra, il bianco più o meno DOC o per il sonno. Ma non mi piace.
“Favorisca i passaporti e me ne vado”, ripeto inflessibile.
“Non ci penso nemmeno. Via! Via! Vada via!”, gesticola e sento che gli prudono le mani. Potrebbe mettermele addosso da un momento all’altro.
“Documenti, prego”
“Via! Via!!
“Documenti prego”. Lo sto irritando.
“E’ tardi e non so dove sono!”
“Li cerchi. Ho tutto il tempo”
“No”
“Allora sono costretta a chiamare la polizia”.
Farfuglia qualcosa tipo ‘faccia pure’.
Gli do un’ultima chance.
“Forse dovrebbe ripensare alla situazione con sangue freddo: io sono qui a disturbarla a manca un quarto a mezzanotte, ma metta sulla bilancia il mio reato di disturbo, in casa mia, e il suo non voler favorire i passaporti per la registrazione alla polizia…E poi decida cosa fare”.
Non mi capacito della mia freddezza.
“Le mando le foto. Mi dia il numero”
“Non voglio le foto…sa per la privacy. Mi faccia vedere i passaporti”.
“Le foto. Mi dia il suo numero che non ce l’ho”
“Impossibile. Ce l’ha eccome. L’ho chiamata mille volte. Detto questo, la questione è un’altra: voglio i documenti originali”.
Si mette a urlare. Non si sta mettendo bene. Non ci vuole un genio, né una laurea in lingue, per capire che ‘hija de puta’ non è un complimento.
E in tutto questo trambusto, la cosa più strana è che nessuno degli altri si è svegliato. Il tutto ha un che di inverosimile. Non mi resta che bleffare, tiro fuori il telefonino e faccio finta di registrare. Non registro perché non ci riesco, non voglio distogliere lo sguardo dal tipo e ci metterei troppo a cercare l’applicazione. Ma il gesto basta per farlo calmare, nel dubbio. Scendo a un compromesso e mi faccio andare bene le foto, che alla fine non sono Kono Kalakaua di Hawaii Five O. Non ho nemmeno gli occhi a mandorla e, soprattutto, una calibro 38 che spunta dagli skinny jeans.
Trascrivo ogni dettaglio con la mano destra, la sinistra tiene il cellulare in una posizione tale che potrebbe essere in fase di registrazione. Ma non lo è. E, nel dubbio, entrambi facciamo finta di niente. Restiamo sollevati in un limbo temporale, tanto quanto mi ci vuole a trascrivere i dati delle cinque persone, simulando tutta la calma del mondo, ma con un occhio al nuovo coltello da carne Ikea che fa capolino dallo scola posate a un metro e mezzo da lui e circa due da me. Cerco di non attirare la sua attenzione sul medesimo, ovviamente. E invece si gira e ci mette gli occhi sopra ed emette un ghigno. E ha capito tutto. O forse non ho capito niente ed è solo suggestione.
Circa tre minuti in tutto. Una vita.
Me ne vado, e nemmeno gli chiedo i cinque miseri euro della tassa di soggiorno. Voglio solo andarmene da lì.
Richiudo la porta e respiro. Le gambe tremano un po’. Più per la tensione accumulata cercando di dissimulare sicurezza, che per il reale pericolo che correvo. Forse. Ma non ne sono sicura.
Torno a casa.
Mi chiudo la porta alle spalle. Il battito cardiaco è accelerato. Guardo l’orologio. Sono le 23.48. Ho dodici minuti. Solo dodici minuti per compiere il mio dovere e inviare i dati alla Polizia.
Ci metto due ore prima di riaddormentarmi e poi calo in un incubo profondo che non è altro che l’altro epilogo possibile di quello che avrebbe potuto essere stato. Ma poi mi sveglio.
Morale della favola: mai consegnare le chiavi agli ospiti prima di averli registrati al check-in.
Sennò che check-in è? Che per fare lo sbirro non basta averci i jeans attillati di Kono.
(tratto da “Il Vademecum del bravo Hospitality Manager”, ©StefaniaContardi 2019)