Ansimo, annaspo, trascinandomi su per la salita di una tipica ‘creusa’ cittadina, di quelle stradine pedonali che salgono alla Città Alta, o scendono alla Città Bassa. Quelle che se non ti ammazzano ti fortificano. Il traffico cittadino di auto e bus alle spalle è solo udito in lontananza, sovrastato dal mio ginocchio malandato che urla pietà e già provato dalla risalita dei ‘caruggi’ della caratteristica, e talvolta maleodorante, Città Bassa: il centro storico. Arranco sull’acciottolato chiuso tra due alte mura. Alcuni dalla maggior prestanza fisica, mi superano, perdo la mia dignità in un nanosecondo, ma continuo, per un fine superiore: andare a prendere figlio numero Tre a scuola. A fatica raggiungo la meta. Mi posiziono davanti all’antico portone, lì da tempi che mi superano in vetustà di un paio di secoli. Per sostare sul piano di almeno venticinque gradi, la posizione che bisogna assumere è innaturale. Due sono le alternative: faccia portone, facendo perno sulla sola gamba destra, quella dolorante, e la sinistra che con la punta del piede appena sfiora la pavimentazione, o faccia a monte, ben piantata su entrambe le gambe, con il peso del corpo a formare un angolo di circa quarantacinque gradi con il terreno, per cercare il baricentro, in un equilibrio instabile. Per ovvi motivi, opto per la seconda, visto che posso ancora puntare sull’altra metà del corpo; mi assesto faccia a monte con i muscoli addominali, che ricordo di avere solo in queste circostanze, ben tesi a cercare il mio nuovo baricentro di questo mondo in salita, che vuole infierire sul mio corpo floscio dalla stanchezza degli ultimi due anni travagliati. Molte mamme e papà già stazionano nel loro nuovo equilibrio e chiacchierano come se tutto ciò fosse normale, ormai assuefatti alla vertiginosità di questa città. Altre salgono con il fiato corto o mettendo in mostra la propria prestanza, e altre scendono dal capo opposto che porta dalla Città Alta a questo Fulcro di convergenza umana che è la scuola. Un concentrato di umani di ogni provenienza. Ed è nell’attesa che li noto: i piedi. Tanti piedi in sosta. Noto la differenza di chi per raggiungere il luogo del primario sapere scende e quanti, invece, salgono. La maggior parte è di sesso femminile, mamme e nonne che provengono dall’alto nelle loro sneakers Adidas, o nei nuovi modelli Vans e pantacalze tecnici da jogging all’ultima moda, attillati ma non troppo (siamo sempre in una città conservatrice); altre nelle intramontabili ballerine blu che fanno tanto bon ton, corredate da pantaloni San Tropez alla caviglia beige. Lo sguardo sale per scorgere il resto: qualche polo Lacoste e camicette bianche inamidate sotto trench panna, qualche camicia Fred Perry svetta sui mocassini da vela di qualche raro papà con il casco da moto al braccio. Tutti ordinati, puliti e profumati in diverse tonalità di beige, in contrapposizione alla popolazione sudata che, invece, ansimando, sale colorata: ciabatte, sandali, talvolta infradito, babbucce etniche di pelle di capra, su piedi sempre più scuri e ovviamente io, con le mie scarpette anonime da camminatrice di vicoli, basse e flosce come pantofole. Noto la città proprio divisa per colori: i fluorescenti sari indiani avvolti intorno alla vita, con un’estremità che gira intorno alla spalla più strati, le sottogonne di colore contrastante e le pashmine colorate, gli hijab neri, i pantaloni alla turca tie dye multicolore, collane e piercing, occhi a mandorla e scarpe con le zeppe in stile fumetto manga. Dal punto di vista cromatico, stilistico e sociale, mi trovo tra i due estremi. Come sempre. A cavallo di mode, appartenenze e culture. A cavallo di quartieri, visto che li ho abitati quasi tutti. Mai troppo di qua né troppo di là. Mai troppo in giù né troppo in su. In un equilibrio adattabile e resiliente senza troppe pretese. E osservo: è la Città Bassa che sale, quella dei vicoli sporchi e stretti che gli antichi edifici scrostati quasi si toccano, quella delle mutande stese che non si asciugano perché non ci arriva mai il sole, delle botteghe multietniche e delle bellezze artistiche che ti si rivelano inaspettate dietro ad ogni angolo. È la Città Alta che scende, quella del quartiere nobile che dall’alto domina la città dai suoi palazzi ottocenteschi e dei viali alberati. Si incontrano e si mescolano in una sorta di osmosi, esattamente in questo punto. Dove ogni differenza si dovrebbe sciogliere, pur nella conservazione culturale. Dove si incontrano luoghi lontani, storie e vissuti e si dà vita al futuro: fuori dal portone della Scuola. In fondo, la Scuola è anche questo. In fondo, il mondo è bello proprio perché è vario, se solo non fosse, talvolta, avariato. Succede come con il formaggio che lasci un po’ troppo fuori dal frigo, per evitare che le altre cose prendano odore. E lo noto nei crocchi di mamme che, nell’attesa, chiacchierano: chiacchierano per similitudine di colore, per similitudine di sfumature, mentre aspettano pargoli che, invece, escono a manciate di colori primari, secondari e complementari in combinazioni casuali e felici, e si salutano a domani. Noncuranti di niente. Nonostante tutto. Con la pancia che pensa al pollo al curry, al kebab, alla pasta al pesto, o all’ involtino primavera che li aspetta a casa.
Se solo il portone fosse sempre aperto. Se non ci fossero nemmeno i muri. Se tutti vedessimo come funziona di là. Forse ci piacerebbe anche.
E penso che, in fondo, la salita adesso è discesa e la discesa diventa salita.
Per tutti, prima o poi.
Vabbè, io, oggi, vado di toast al prosciutto.