Frida Kahlo, My nena y yo

Le parole sono importanti.

tèmpo. Dal latino tempus. Quantità, che misura il moto delle cose mutabili, rispetto al prima, o al poi. (Accademia della Crusca ed. IV).

…Mutabili, appunto.

C’è una fiaba africana sulla natura caduca dell’uomo, che mi è sempre rimasta impressa. La fiaba recita più o meno così:

Tanto tempo fa, la Luna, che muore e rinasce ogni quattro settimane, disse un giorno alla lepre: “Va’ e annuncia agli uomini che come io muoio e nasco di nuovo, anch’essi moriranno e rinasceranno”.

Ma la luna e la lepre avevano evidenti problemi di comunicazione o forse la lepre non era delle più sveglie e capì fischi per fiaschi. Infatti, la lepre, nel riferire alla gente il messaggio della luna, fece una gran confusione: “Come io muoio e non torno un’altra volta in vita, anche voi morirete e non rinascerete più”.

Quando la lepre fu di ritorno, la Luna le chiese che cosa avesse detto alla gente.

“Ho detto così: come io muoio e non torno un’altra volta in vita, anche voi morirete e non rinascerete più”.

“Ma perché hai detto una cosa simile?”, gridò la Luna infuriata e così dicendo le tirò addosso un bastone che la colpì sul muso e le spaccò il labbro.

La lepre fuggì via e da allora ha sempre avuto il labbro spaccato. E gli uomini, da quel tempo, muoiono e non rinascono.

Mkunga la Nascibambini è tornata dall’Africa. Anche se dicono che dall’Africa non si torna mai del tutto. Mkunga fa nascere i bambini. E rinasce ad ogni nascita. È bravissima. Mkunga è una mia carissima amica di infanzia. In Africa dicono che ha un cuore enorme, perché dentro ci stanno tutti i bambini che fa nascere. E forse è per questo che malgrado gli anni passino, lei sembra sempre una bambina. Ho sempre pensato che colei che favorisce la nascita abbia qualcosa di mistico, qualche potere non propriamente terreno, perché è indubbio che essere così vicino al miracolo della vita, un po’ di quel miracolo viene assorbito. Anzi, io credo che ad ogni bambino nato, Mkunga ringiovanisca. Di certo non è invecchiata.

Dicono che in Africa abbia fatto nascere più di mille. E l’Africa, che è la culla dell’uomo, è anche un paese “giovane”.

Però Mkunga è bianca. E in Africa resta una muzungu.

“Muzungu! Mzungu! Questa parola mi seguiva ovunque andassi. Anche dopo anni.”, è la prima cosa che mi dice, leggermente irritata.

“Qualche volta avrei voluto essere trasparente. Lì se sei bianco, sei muzungu anche se ci sei nato e vissuto, in Tanzania. Proprio come quel vecchio ingegnere di origine tedesca nato e vissuto nella capitale che ci è capitato al Kituo Afya, il centro medico. Era in zona per un cantiere. È arrivato al Kituo con un grave attacco d’asma. Io sono un’ostetrica! Ma essendo muzungo me lo hanno affibbiato. Non lo capivo granché: parlava un dialetto locale, nemmeno lo swahili! Ma era bianco come uno straccio. Insomma, è il colore della pelle che fa muzungu. Eppure, muzungu non vuol dire ‘uomo bianco’, né tanto meno occidentale”, precisa Mkunga.

Con le poche nozioni di swahili che ho, ricordo che i nomi di esseri animati si caratterizzano dal prefisso m- come “mtu”, uomo al singolare e se a Mzungo leviamo il prefisso m- rimane “zungu” che significa “strano o meraviglioso”. Azzardo: forse l’etimologia deriva da quello “strano e meraviglioso” che erano quei bianchi europei con i capelli chiari e gli occhi azzurri, che arrivarono con la loro “civiltà”; con la tecnologia buona che guarisce, e quella cattiva che uccide. Capisco anche che, aggiungendo il suffisso -ka a zungu si ottiene il verbo “assediare, accerchiare” (zunguka). Ecco che allora Mzungu diventerebbe “chi assedia”. Questo ragionamento etimologico si riferisce sicuramente a prima che arrivassero i cinesi… E sì, sono arrivati anche lì. Oggi a capo di quasi tutti i cantieri, incluso quello del mzungu tedesco con l’asma.

“…Però cristiani e musulmani convivono armoniosamente senza nemmeno accorgersene”, continua Mkunga.

“In ospedale facevamo una volta la preghiera cattolica e una volta quella musulmana”.

Mkunga la Nascibambini è tornata dall’Africa. Ma qualcosa nei suoi occhi mi dice che è qui in Europa in modalità ologrammatica provvisoria. Mkunga è pensierosa.

“Sono tornata già da qualche settimana ma fatico a riabituarmi. Troppo freddo. Troppo stress. Là, la concezione del tempo e dello spazio sono diversi. Il tempo è diverso. Al di sotto dell’Equatore scorre ad un altro ritmo. Le giornate sono lunghe e tutte uguali. Le stagioni sono solo due: quella delle piccole piogge e quella delle grandi piogge…e dei kumbi kumbi gli insetti libellula che di notte perdono le ali. Al mattino, le trovi a mucchi sparpagliate per terra, ma non trovi i corpi. Un mistero che devo ancora scoprire”

Là, malgrado il lavoro, avevo tanto tempo a disposizione. Cosa che l’Occidente, per così dire evoluto, non conosce più”.

Il tempo a disposizione di cui parla Mkunga non è il convenzionale tempo libero occidentale. La piccola dimensione diventa grande. Sconfinata quanto quei paesaggi, vasti quasi più di quelli del pensiero. In occidente cadresti in depressione. In occidente cadi in depressioni oramai per qualsiasi cosa. Mkunga mi racconta che là, In Africa, non soffrono tanto di stress o di crisi di ansia. Hanno altro a cui pensare. E forse perché pure nel poco, non si sentono mai soli. Sono sempre imparentati con qualcuno e, nel bisogno, ognuno a turno si prende cura dell’altro. La presenza della famiglia allargata, rasenta, a volte, la morbosità e gli harem di donne pettegole (tutto il mondo è paese) vogliono avere l’ultima parola su tutto (come ovunque, ma ahimè non ovunque ci riescono). Mkunga mi spiega che le puerpere, ad esempio, sono seguite da madri e parenti varie che le assistono e dormono al loro capezzale fin tanto che non escono dal centro. Preparano anche i pasti per i propri parenti. Per chi non ne ha, non è prevista alcuna previdenza sociale. Ma non deve sentirsi necessariamente uno sfigato. Ci penserà la persona a lui più prossima, o qualche vicino.

Ci sono un sacco di vacanze e feste nazionali, perché si festeggiano sia quelle musulmane che quelle cristiane. Insomma, non ci si disfa di lavoro e si apprezza di più la luce del giorno. E in questa dimensione interreligiosa e panbucolica, la vita scorre scandita dai ritmi del giorno e delle grandi stagioni.

Dopo il raccolto, se è andato bene, la gente affolla gli ambulatori: con i nuovi soldi riescono finalmente a permettersi quelle cure procrastinate per mesi.

Mkunga narra che le donne laggiù nell’Africa nera hanno anche uno stoico grado di sopportazione del dolore se si tratta di dolori da parto. È la natura che chiama al dovere, dice. Ma se dopo aver lavorato nei campi per una settimana filata, viene un accenno di mal di schiena, corrono tutte al Kituo cha Afya pretendendo cure e antibiotici, anche quando non servono. Ma la ‘teoria delle mentine’ funziona sempre alla grande”, dice Mkunga. E ride.

“Un paradosso tutto africano, forse un retaggio storico comportamentale, originato a seguito di qualche campagna sanitaria colonialista che cercò di allentare la morsa della medicina sciamanica. Fatto sta che le caramelline prescritte con effetto placebo funzionano nella maggior parte dei casi di nulla o lieve entità”.

“Il confine tra la vita e la morte è fluido. Come dovrebbe essere. La morte viene vissuta come un’accezione normale della vita, senza la quale la vita non sarebbe tale”, continua.

La bambina e la maschera, di Frida Kahlo

“Mkunga! Mkunga! Andate a chiamare Mkunga, la nasci bambini! Presto! Svegliatela dal suo sonno sereno. C’è una donna accasciata alla porta del Kituo”, sbraita l’infermiera del turno di notte.

Mkunga stava sognando le palme di Zanzibar e le ripetute percosse sulla porticina di legno, la risvegliarono come una noce di cocco che ti cade sulla testa. Era stordita. Non capiva ancora bene la lingua swahili, ma la capiva quanto basta per sentirsi chiamata in causa: c’era un’emergenza. Ma da come strillavano lo avrebbe capito chiunque. Un’altra notte insonne, ma aiutare un bimbo nuovo ad entrare nel mondo, non ha prezzo. Mkunga si fiondò al centro così com’era: nel suo doppio strato di leggins e magliette stropicciate. Si piegò sulla donna accasciata e le tastò il polso. Era debolissimo. Poi, ancora lì dove si trovava, le scoprì l’addome e la auscultò con lo stetoscopio di Pinard in alluminio, quello a forma di trombetta. Nessun battito. E del resto nessun visibile rigonfiamento riconducibile ad altro che non fosse la normale adipe della donna. Scarsa per lo più, da quanto era emaciata.

“Aiutatemi, per favore. Portiamola in ambulatorio e andate a chiamare Daktari, la dottoressa”

Quando giunse la Daktari era troppo tardi. La donna era già stata avvolta in un paio di kanga colorati di fortuna.

Anche la morte è a colori in Africa. Colorata e senza lacrime.

Mentre avvolgevano la donna nei kanga, nella stanzetta accanto la giovane Mariamu invece piangeva e urlava da una mezz’oretta. Il parto era già aperto.

Mkunga non sarebbe tornata a casa tanto presto.

Nel cuore della notte muore silenziosa una donna e all’alba nasce strillando un bambino. A una morte da qualche parte, corrisponde una nascita da qualche altra. A volte anche nello stesso luogo.

funerale africano

Il Kanga. Ecco, il Kanga potrebbe essere sinonimo di vita. Sprizza vita anche sui morti. Il Kanga è il pareo colorato che viene indossato e usato un po’ per tutto. Con i suoi motivi colorati rallegra il funerale e unisce i partecipanti, anche quando uomini e donne sono divisi. Gli uomini si affaccendano sul luogo della sepoltura e si occupano del feretro; le donne si avvicinano solo dopo l’inumazione e intanto si dedicano al rituale orale della biografia del morto. Raccontano la storia della persona e la storia dell’uomo attraverso una cantrice leader. Si piange? No. E perché? E poi via tutti a mangiare ugali e mahraghe, il corrispondente di polenta e fasoi del muzungu del nord Italia.

Ah! I kumbi kumbi escono con la pioggia a milioni dai buchi nel terreno. Si mettono in volo e in aria si accoppiano, perdono le ali e ritornano a rintanarsi nei buchi. Anche loro sono la prova evidente di ciò che morte non è.

Per quanto mi riguarda io non sto ancora tanto bene. Gli incubi si stanno diradando, ma il mal di testa non accenna ad andarsene. A volte mi si annebbia persino la vista.

Credo che farò dei nuovi controlli.

Finisce che mi ricoverano un’altra volta. E devo interrompere momentaneamente il mio viaggio per non so ancora bene dove o cosa. A dire il vero, dall’incidente non mi ero ancora rimesso in cammino. Per lo meno non geograficamente parlando. Credo che a breve avrò modo di sperimentare una concezione del tempo molto più africana che europea. Non so se è un bene o un male. Vedremo: tempo al tempo.

(tratto da romanzo inedito di Stefania Contardi)