GENOVA IN DIRETTA

Sono così sfatta che arranco fino al terzo piano ammezzato che oggi mi sembra l’ultimo piano del Pirellone. Mi butto sulla poltrona di pelle vintage che,  puff, cerca di rallentare l’aggressione repentina del mio peso morto. Non mi faccio nemmeno la doccia, ma riesco ad allungarmi senza alzarmi fino al sacchetto biodegradabile con la spesa da “single per un giorno”, acquistata nel supermarket di zona, aperto 24 h su 24. Genova sa essere davvero la Superba, come il tramezzino al salmone e salsa al lime che ho ingoiato senza rendermene conto tanto mi pareva buono, ma aveva un gusto strano anche perché non era salmone, ma Praga e salsa tartara: quello al salmone doveva essere quello nella fila accanto. Non accendo la tv come si vorrebbe in qualsiasi quadretto simile, perché non ce l’ho. Io la tv non la guardo dal 1999. Un bel record che non ho faticato per nulla a raggiungere. In fondo il film live di stasera è stato più interessante di Netflix.

Un passo indietro. Sono le 21.30 ed esco dall’ ospedale San Martino dove è ricoverato papà. Raggiungo la fermata del bus. E’ deserta. Fa quasi impressione questa città che pare narcotizzata dal buio della sera. Ma fa caldo e fa venire voglia di non rientrare.

Arriva un 618 e salgo anche se non so di preciso dove va. Ma è tardi e lo prendo. Sia mai che lo perda. Da qui tutti i bus passano comunque dal centro. Anche il bus è deserto, ma alla fermata seguente, quella dell’ospedale centrale, si popola improvvisamente. La città sembra si sia versata dentro al bus come d’incanto. Ecco dove sono tutti stasera: sul 618. E si spintonano per posizionarsi in ogni centimetro. Per fortuna, io sono già seduta e posso tentare di appisolarmi, cullata dallo sballonzolare del bus, ma non ci riesco. Uno degli ultimi discendenti del popolo Azteco mi si piazza di fianco. Un indiano d’america vestito da cowboy: stivali di cuoio a punta, come Springsteen in Born in the USA negli ottanta, jeans usurati naturalmente, che nemmeno la Diesel riuscirebbe a riprodurne il lavaggio con tutte le tecniche sofisticate che ci sono oggi. E decisamente oversize. Delle mutande con il logo Armani sull’elastico, spuntano generosamente dai pantaloni e si spera che la cintura di cuoio borchiata regga agli scossoni del bus, almeno per i tragitto che devo fare io. A collo, sulla camicia nera di jeans, pende un porta coltello di pelle etnico, con dentro un accendigas, che credo gli serva da accendino. Ha una treccia nera e un profilo esotico e zigomi allargati e schiacciati. Nel complesso è un bell’uomo, non fosse che gesticola e parla da solo e ogni tanto beve qualcosa di scuro da una bottiglietta di acqua minerale da mezzo, che non è decisamente né acqua né tè nero, né coca cola alla spina. Un gruppo di ragazzetti sui sedici anni schiamazzano e parlano in viva voce con qualche altro amico al cellulare. Ora so chi vedranno, dove si vedranno, a che ora, cosa faranno e cosa non faranno, oltre a scomodare porci e madonne ogni due frasi minime di senso non propriamente compiuto. Due nigeriane che hanno sconfinato di zona, sembrano tornare dal lavoro assai provate, ma non credo che facciano precisamente le colf. Hanno un culo così grosso in quei pantacalze neri l’una e bianchi l’altra (ma si sono messe d’accordo?), che mi impediscono la vista della prossima fermata. Dalla mia posizione seduta, poi, sembrano ancora più giganteschi di quel che forse sono. Devo allungare il collo per capire a che punto mi trovo. Ma sale una vecchia barbona magra come uno stecco, con una borsa Chanel ormai a buchi, che cozza col resto della mise e mi distraggo. Ha un paio di improbabili pantaloni tartan rossi di tre taglie più grandi e mi distraggo. Devono aver strusciato per almeno vent’anni sull’asfalto cittadino, tanto sono zozzi e logori e raccolto tanto di quel piscio a cacche di cani, che ormai ci puoi concimare un campo. I capelli grigi arruffati e sciolti sulle spalle non vedono pettine e shampoo dalla caduta del muro di Berlino e la casacca fuxia che le si appiccica addosso, non è propriamente intonata a tutto il resto. Ma questo è un dettaglio trascurabile. Puzza così tanto che devo trattenere il respiro e urla che vuole un posto a sedere. L’Azteco che indulge di sostanza rossa non ha però perso il senso della galanteria e barcollando lascia il posto vicino a me alla vecchia. Io sto ancora trattenendo il respiro e sto diventando cianotica, con il rischio di morire asfissiata e nel più fortunato dei casi anche inondata dal vomito dell’Azteco, in piedi davanti a me, che non pare messo tanto bene. Dietro di lui, un punkabbestia con quei duemila piercing che fanno suonare il metal detector dell’aeroporto da questa distanza, pare appeso alla sbarra del bus come uno straccio ad asciugare, tanto è fatto: l’immancabile pastore tedesco ai piedi. Punkabbestia ha dei piercing cl setto nasale che ha fatto infezione. Punkabbestia ha la testa rasata ai lati e i capelli rasta. Punkabbestia ha così tanti tatuaggi che ci potresti pagare il mutuo della casa. Punkabbestia ha catene dappertutto, con le quali si è legato allo stereotipo da solo. Dietro a Punkabbestia c’ è uno smilzo emaciato, sì un altro  (stasera è la parata degli uomini macilenti e delle donne generose), con un sacco nero della rumenta, dentro al quale c’è un altro sacco con un altro sacco. Praticamente una matrioska di sacchi. Chissà cosa c’è dentro. L’uomo col Sacco riconosce l’Azteco e si salutano animatamente, per quanto possono essere le forze rimaste che animano quei corpi.

“Ehi amico, com’è? Ogni tanto ci si rivede eh?”

“Ciao amigo, todo bien?”

“Diciamo che finché ci si rivede va bene no? Perché è quando non ci si rivede più, cazzo, è lì che le cose non vanno bene. Mi segui?”

“…creo que si”, ma so che non ha capito un tubo.

“Intendo dire che finché ci si vede vuol dire che va bene, no? Se non ci si vede più vuol dire che o un dei due ha vinto all‘enalotto, o sta trombando come un riccio. Ho è in overdose. ”

“No te entiendo amigo”

“Dico che se non ci si vede più o hai vinto alla lotteria, o stai trombando come un riccio, mica dico che se non ci si vede più è perché sei davvero morto! E’ un modo di dire, cazzo. Ma ci sei o ci fai, chicheniza?”.

“Entiendo que es mas facil che yo sea muerto che esa loteria che dices”

“Sai che hai ragione, cazzo?”

“Que hay lì dentro?”

“Shhh, qui ho tanta di quella bamba, come se piovesse. Nemmeno in tutta la Colombia!”, e lo dice con la voce strozzata cercando di sussurare, ma Uomo col Sacco non la sa fare e sentiamo tutti.

“Que entiendes con la bamba”

“Che cazzo dici, ma sei colombiano o fai finta eh, chicheniza?”, Uomo col Sacco fa un’evidente confusione geografica..

“Shhh”, gli fa poi nell’orecchio, ma Uomo col Sacco non sa minimamente modulare il volume.

“…C’ho cocaina come se piovesse”

“No me digas”

“Si, la mia lotteria della sera”

“No lo creo”

“shhh…psss….shhh….psss…”, va avanti una buona mezzora con shhh…psss….shhh….psss, che se voleva dirgli qualcosa di losco o segreto, senza destare curiosità e sospetti, ormai è di dominio così pubblico che non ci crederebbe nemmeno il nucleo antidroga. Infatti, dentro c’è  la sua biancheria sporca e qualche altro misero avere che aveva in ospedale, perché Uomo col Sacco si è dimenticato di levarsi il braccialetto al polso con il codice a barre.

Il 618 è un bus di lingua spagnola: ci sono più sudamericani qui che in tutta la Colombia o l’’Ecuador. L’America del Sud deve essere vuota, ormai. Sono tutti tornati da Cristoforo Colombo a riscuotere la loro parte… A lui che vagava per i mari senza idea alcuna e a quel testa di minchia di Hernan Cortes.

Peccato che devo scendere perché mi stavo divertendo.

Piazza De Ferrari è un pullulare di gente. La fontana è più gremita che nemmeno la Fontana di Trevi alla domenica. Le scale di Palazzo Ducale sono di marmo umano da quante scolaresche in gita sono sedute sotto alla gigantografia dell’autoritratto di Ligabue e delle donne di Kertesz. Musica arriva un po’ ovunque, da ovunque. Mi infilo giù per San Lorenzo dove i dehors dei locali entrano quasi in Cattedrale. Persino le scale della cattedrale del mare, hanno perso la loro funzione di accesso alla chiesa, per diventare un’estensione della movida cittadina, anche se stanno tutti fermi, lì seduti a bere e a chiacchierare. I marmi e le ardesie degli scalini sono tirati a lucido, più che dal passaggio dei pellegrini, dalla presenza stanziale dei tanti sederi che, sera dopo sera, vi si posano.

Nei vicoli circolano commercialisti, notai e avvocati in giacca e cravatta di chi si è attardato con l’happy hour, direttamente dall’ufficio, orde di turisti in bermuda e infradito e ragazzine di città tirate a lucido con tacco quindici. Dietro l’angolo qualche rasta con i pantaloni alla turca color vomito e la borsetta indiana colorata, siede ad una fontana minore. Mi passa a fianco uno sciame di signore profumate e ben vestite, uscite da qualche teatro. Si salutano e si danno appuntamento “alla prossima”, non specificata. Nel mio vicolo, dribblando due escrementi e una pisciatina, sento in lontananza il ritmo dei congas africani: sarà qualche festa afropunk di quartiere. E’ brusio, musica, ritmo. E nelle luci della notte la città resta sveglia e mi dà il benvenuto.  Ora però io la spengo, perché ho un sonno boia.

Per stasera lo spettacolo è finito. Ingoio il tramezzino di salmone di Praga.

Si ricomincia domani mattina con la focaccia genovese pucciata nel latte.

(Stefania Contardi 25.5.2018. Foto di Bianca Fusco)