Dicono che un Trasloco sia un po’ come un lutto.

Roba che richiede tempo, che devi superare e rielaborare. Che ti cambia per sempre. Sempre.

Questo dannato Trasloco, non è il primo, ma se sopravvivo, sarà di certo l’ultimo! Prima di quello eterno. Al momento non ho tempo per pensare a rielaborare lutti. Non ho tempo per i sentimentalismi, ché l’obiettivo è riuscire a tenere fuori la testa dalla melma per respirare. Perché sì, alla fine, un trasloco se non ti uccide, ti cambia.

Un Trasloco, voluto o obbligato che sia, porta con sé il seme del cambiamento. Della novità. Della speranza. E ognuno ha la sua, non necessariamente legata a un progetto. A volte, se ne sta nascosta dentro a quello scatolone senza etichetta, dove non sai bene cosa ci sia, ma sai che se lo hai trasportato, un motivo c’è. E, a volte, è proprio quello che ti ha spinto a fare il grande passo. Anche se non te lo ricordi più.

Il nostro Trasloco è nato, invece, da un reale desiderio di cambiamento consapevole e da necessità famigliari. E, sicuramente, anche da qualcos’altro che non sappiamo ancora. Ma ciò che nessuno in quel momento sapeva, era cosa poteva diventare un Trasloco intraregionale di cinque persone più coniglio nano: un suicidio collettivo. A un certo punto, arrivi a volergli staccare la spina. A cominciare dalle cose. Buttare via tutto. Tuttissimo. E ricominciare. Con meno. Molto meno. Ché la vita non ha bisogno di cose.

O almeno così tante.

Le nostre sono tante quante quelle da noi collezionate in vent’anni e considerato il mio debole per i mercatini delle pulci, sono diventate troppe.

E allora via tutte le cose, tutti i ricordi, i vestiti, i mobili. Nessuna nostalgia. Nessuna pietà. Nemmeno per la bellissima, grande casa. Via! Via anche quella. Perché la sofferenza non è nemmeno più lasciarla: è riuscire a cazzo lasciarla in tempo, prima che ti fagociti in un buco nero.

Nessun sentimentalismo. Non c’è più tempo.

Un Trasloco come questo, anche se nato sotto i migliori auspici, ti abbruttisce, ti imbruttisce, ti cambia. Non sempre in meglio.

Di certo cambia le priorità di chi c’è invischiato dentro. I modus operandi comportamentali e comunicativi. La percezione del sé. L’ io, il tu e l’assoluto. Incluso l’assolutamente relativo. Si arriva all’osso delle cose, al nocciolo delle questioni con poche chiacchiere (o poche musse, come direbbero a Genova)

Diretti.

Per nulla empatici. Scortesi.

Tu dentro il magma e il resto del mondo fuori. Separati dal muro invisibile delle incombenze, delle scadenze, delle pendenze, della fatica, delle notti in bianco tra gli scatoloni, a mangiare polvere ormai a colazione, pranzo e cena.

Tu, il dermatofagoide e le sue conseguenze.

Ieri ero in trasferta nel luogo natale di papà, nonché residenza estiva dei miei vecchi, un’incantevole località di mare, ma non per starmene sotto all’ombrellone, piuttosto per incombenze familiari, varie ed eventuali.

Incontro F., una vecchia amica d’ infanzia. Io trafelata, con tre figli urlanti e bagagli ovunque, il telefono che squilla perché papà è appena caduto dalle scale e il coniglio è scappato dalla gabbia fuori dal portone, perché mi si è aperta nella manovra di scarico. Invece F. no, è sempre rilassata. Ha un lavoro. Un marito. Un figlio. Grande. Una casa a Milano. Una casa al mare. Tutto uno. È facile non perdersi o diventare dispersivi.

Noi no. Siamo sempre trafelati. Di corsa. Stanchi. Sempre dietro a qualcosa, dietro a qualcuno e indietro in tutto.

“Ciao Stefi! Come stai?”

“Male, no anzi proprio di merda, ma potrebbe andare peggio, mi viene, così come mi viene, francesismo incluso.

La faccia di F. milanese conservatrice doc, diventa una statua di cera. Quelle del museo delle cere di Londra sono, in confronto, la quintessenza dell’espressività. È basita. Forse c’è rimasta male: si aspettava il solito ‘bene, grazie e tu?’

Ma ci sono momenti in cui ci sono risposte giuste a domande sbagliate: sono quelle dettate dalla mancanza di retorica. Come credo questa. Infondo.

M. mi guarda immobile per circa sei lunghissimi secondi in cui non è più al centro dell’attenzione. Per una volta non è io di qua, io di là e le domande retoriche, di comodo o di convenienza. Perché l’età adulta a volte fa anche questo: ci allontana. E la comunicazione smette di essere relazione. Non so cosa succeda per prima, se si perde prima la parola e poi la relazione o viceversa.

E io?

Be’, io ho semplicemente smesso di rispondere a quelle domande retoriche, di comodo o di convenienza, in modo retorico, di comodo o di convenienza. Tipo bene anche se è male, sì quando è no, a presto quando sai che è a mai e via dicendo.

Non ne ho più tempo.

Il Trasloco ha fatto anche questo: ha cambiato il mio filtro di inibizioni. Annullato il mio timido bon ton. Prosciugato il linguaggio. Verbale. Scritto. Tutto.

Cambiato le priorità. E l’empatia a tutti i costi o le conversazioni vuote, non sono più tra quelle.

Ma mi ha anche aiutato. Finalmente sono libera. Basta finzione!

Posso dire la verità al mondo.

Sempre.

Inclusa me stessa.

Dunque?

Ecco che nell’affanno almeno inizio a godermi questa nuova me, per quanto soggettiva e relativa, più aderente al me stessa vera per me, più che al me stessa vera per gli altri.

Chissà dove mi porterà.

Sembra tutto così nuovo, tutto così vero. Da non sembrarlo nemmeno, vero.

È che prima o poi dovrò fare nuove conoscenze o riallacciare con le vecchie: quelle di scuola, dell’università, del mio ultimo lavoro. Per cui dovrò stare un po’ più attenta. Ma non ancora. Oggi mi gongolo nel mio nuovo principio di verità personale, che forse può imporsi sulla retorica, il comodo o la convenienza, ma non sulla verità oggettiva assoluta, che però nessuno sa mai bene qual è.

La mia, la tua, l’assoluta.

E allora?

Allora è che la nostra realtà è la sola che conosciamo veramente. E poco. Ma c’è sempre qualcuno che ti dice come devi essere, cosa devi fare e cosa devi fare per essere: Gesù, Maometto, la portinaia, il capo, mia mamma. Mai semplicemente di essere.  Se per esempio io decido di camminare su un piede solo, d’ora in avanti mi prenderebbero per matta. È una cosa da fuori di testa, una cosa sbagliata perché nessuno la fa, anche se non viola alcuna norma morale. La questione è proprio questa: io sono vera se la faccio. Non lo sarei, se decidessi di non farlo solo perché nessuno lo fa. Io sono ciò che faccio. Una fuori di testa? Anche, perché essere il più aderenti a sé stessi fa anche questo. La consapevolezza fa paura e ti isola.

Ma il rischio è di perseverare nella rappresentazione di sé stessi nel ruolo dato.

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tratto da “Il Trasloco”, romanzo inedito di Stefania Contardi, 2018, finalista Premio Prunola di Panda edizioni

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