Questo pensiero mi ossessiona da sempre e mi segue come un segugio affamato ogni qualvolta devo scrivere. Fino a che punto le mie parole posso rappresentare la verità? Lasciamo perdere la mia personale, ma quella universale che dovrebbe essere insita in ogni buon scritto e trascende storie, personaggi, contenuti e ambientazioni? Quella che deve trascendere un verso? Ma soprattutto è più attendibile il mio pensiero o il mio linguaggio? È nato prima l’ uovo o la gallina? Quindi, posso io essere così consapevole di qualcosa da poterne essere un degno rappresentante? E se il mio pensiero fosse fuorviante il linguaggio? E se lo fossero invece le parole? Volendolo ragionarci un po’ di più, questa fisima (alla quale un addetto ai lavori darebbe altra definizione più aulica), trova una curiosa argomentazione nel pensiero di Ludwig Wittgenstein, noto filosofo del linguaggio. Al di là delle simpatie o meno che può suscitare il personaggio…che non era proprio né un poveraccio né uno sprovveduto e sfuggi alle sgrinfie naziste in tempo, quindi pagó un riscatto pari quasi un quarto della sua ricchezza (molto consistente, dunque) per salvare le sorelle. Ma chissenefrega dell’etica e della morale se tra un campo (non certo di fiori) e la trafugazione in occidente della famiglia, dovette arrivare a dimostrare di non essere più di origine ebrea per quei tre quarti infami. Che poi, per certi figli di magnate, una una tonnellata e mezzo d’oro, cifra del tempo, non era che bruscolini. D’altro canto è da imputargli l’orrore di aver rimpolpato, coaì facendo, le casse di Hitler, che sappiamo non ci pagava solo le bollette. Ma vabbè questo è l’uomo. Il linguista mi interessa di più. Torniamo alle parole che sono più importanti di tanto luccicare.”Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” scrive (da interpretare non nell’ accezione di censura. Ecco, come ti incasinano le parole), facendo una critica del linguaggio secondo la quale il linguaggio sfida i limiti del linguaggio stesso.Wittgenstein è convinto che non possiamo fidarci del nostro pensiero, per questo riponeva tanta fiducia nel linguaggio inteso come struttura, perché il pensiero è costantemente fuorviato dall’illusione. Wittgenstein, che fu anche matematico, applicò questo concetto alla sua logica filosofica, basandosi tuttavia sul principio alla base di ogni pensiero: ovvero il linguaggio, perché noi pensiamo attraverso le parole. NOI PENSIAMO ATTRAVERSO LE PAROLE! Che tuttavia è conquista e limite del suo pensiero, che, poi, è conquista e limite del linguaggio stesso. Infatti, noi siamo in lotta contro il linguaggio, costantemente. Ditelo a me! Il suo obiettivo era chiarire l’uso del linguaggio per rendere più efficace e meno insidioso il pensiero. PERCHÉ SÌ, IL PENSIERO NON FORMULATO PUÒ ESSERE INSIDIOSO. E se un problema non è risolvibile, è perché noi lo formuliamo, o non lo formuliamo, in modo che sia risolvibile. Sembra facile e lo è. Ed è una delle leggi che reggono anche la burocrazia moderna. Avete provato a leggere, appunto, un decreto legge? Una bolletta? Per non parlare di certi libretti di istruzione della lavatrice!Tornando a W., egli non era interessato alla logica pura, ma al funzionamento del pensiero, per questo decostruì il linguaggio, lo scompose, nel tentativo di raggiungere il nucleo nascosto, della verità. C’è riuscito? Bho? Perché che cos’ è la verità se non una fantastica, sberluccicante, ben agghindata finzione? Io mi sarei fermata un attimo prima. Perché a pensarci bene, il linguaggio stesso è un’invenzione, c’è ben poco da destrutturare, te lo ritrovi tra le mani come un’ arma a doppio taglio, allora preferisco giocarci. Giocare non è forse una delle attività più serie? Non è forse attraverso il gioco che esprimiamo la nostra più vera identità, sviluppando conoscenze complesse? Cosa c’è di più vero del gioco? Ho sempre pensato che i filosofi devono aver giocato davvero poco da bambini. Anzi, devono essere nati vecchi.

Volendo farsi due palle così è da leggere anche ill suo interessante Tractatus Logico-philosophicus.