Lo dico sinceramente:  sono molto preoccupata. Di una preoccupazione diversa, un po’ come i sintomi del Covid.

Il web pullula di associazioni culturali, enti e musei che organizzano gite scolastiche virtuali: dai musei più classici, alle città d’arte, alla natura della Val di Sole, nella collettiva e benevola accettazione di tutti.
Io lo trovo un bizzarro abominio.

Ormai si è sdoganata l’idea che considerato che la gita d’istruzione fa parte del programma, come previsto dall’ordinamento, essa possa essere organizzata ugualmente, in tempi in cui nulla è normale e perciò in modalità anomala, ma che pare essere l’unica gentilmente concessa dal regime sanitocratico.

Queste nuove proposte hanno slogan che vorrebbero essere allettanti e invitanti come marketing docet. Io le trovo aberranti. come aberrante trovo che la follia del “raggiungibili comodamente dalla tua classe o dalla tua stanza” (magari ancora in mutande) venga condivisa dalla comunità educante.
Come se la natura potesse essere ingabbiata in pochi pollici, slegata dal senso dell’immenso, dall’olfatto per cogliere i primi profumi di primavera, o dall’ascolto delle fronde o del canto degli uccelli. Un dipinto, ugualmente violato nelle sue dimensioni reali, nei suoi colori,  imprigionato nello schermo che lo priva dell’emozione, della luce, della tridimensionalità. E dove mettiamo l’esperienza dei sapori del territorio? Per quello vengono organizzati webinar su come cucinarsi il frico friulano a casa. Sob! Ma la ciliegina sulla torta è il pranzo al sacco preparato dalla mensa “per rendere più verosimile la gita” (in classe e non di classe), per i fortunati che riescono ancora ad andare a scuola.
E l’aspetto relazionale e le dinamiche di gruppo? Nulla può sostituire  l’andare in gita scolastica con i compagni: l’aspettativa del giorno, il pullman, il viaggio, l’assoluzione e la sospensione della normale disciplina, le risate,  le patatine che si rovesciano sul sedile, nell’ilarità comune.
È una realtà distopica, distorta e disumanizzante a a portata di mouse. È l’ultima trovata, o l’ultima idiozia, che siamo stati in grado di partorire come se tutto ciò fosse normale e non da TSO.

Nell’immaginario comune già da tempo stanno diventando normali tutta una serie di atteggiamenti che fino a pochi mesi fa sarebbero stati definiti sinonimo di imbecillità. Forse il compito della comunità educante tutta, dovrebbe invece essere quello di non avallare l’imbecillità, di non suffragare l’idea di un mondo parallelo, asociale individuale asettico, distanziato, come vorrebbero che fosse, ma promuovere il senso critico, (ma basterebbe anche solo il buon senso), per constatare che c’è un limite a tutto, anche di fronte a qualsivoglia forma di emergenza sanitaria, vera o presunta, e promuovere la vita in vita e non la morte in vita. 
Questo è il passaggio più importante. Non tanto l’opportunità (non certa della scelta del lemma), in questo caso specifico, di visitare un museo in modalità virtuale, ma dell’accettazione di questa modalità come normale o, quando va bene, come ‘il male minore’ rispetto a non organizzarne affatto.

Ahimè, ancora una volta, viene dimenticato un aspetto fondamentale: la popolazione a cui questa follia viene rivolta, cioè i bambini e i ragazzi che per antonomasia necessitano di un coinvolgimento sensoriale a 360 gradi affinché un’esperienza didattica possa essere definita tale. È pura follia pensare che una visita guidata virtuale, per quanto ben organizzata, per quanto costruita con le più moderne tecnologie di interattività, possa sostituirsi a quella reale. Nemmeno il nerd della terza C si entusiasmerà al pensiero di andare in gita sul tablet (magari ancora pigiama). E se ciò dovesse accadere, be’ vuol dire che siamo ad un punto di non ritorno. Che il danno è irreversibile.

Il timore del vero complottista patentato è che sia stato tutto pianificato, facendo proprio  leva e speculando sulla predisposizione digitale delle nuove generazioni, per farla passare come realtà sostitutiva e più vicina alle loro modalità (quindi ancora per il loro bene),  contribuendo a plasmare, invece, generazioni di automi senz’anima.
E che questo danno sia frutto dell’enorme stortura di fondo: la placida accettazione e il totale appiattimento della comunità educante tutta (genitori, scuola, amministrazione) nei confronti di una follia sdoganata come cosa buona e giusta. Il vero complottista pensa che, invece, l’opporsi a questa follia, sarebbe, al contrario,  fare educazione vera.

Ma a differenza del vero complottista, io ho un dubbio. Che forse ho torto, forse sto esagerando. Forse è follia pensare che vi sia un piano di cancellazione dell’emozione e della sensorialità? E spero di vivere abbastanza per essere smentita e dover pensare che non avevo motivo di arrivare nemmeno a dover formulare alcuna ipotesi e tanto meno alcun dubbio. 

Ma, ahimè, ho dubbi anche sul mio dubbio.