No, noi italiani non siamo mai pronti. Non lo siamo nemmeno adesso. Eppure il rischio pandemia è uno dei rischi verosimili già considerati da tempo. Siamo in una quarantena di proclami, ma non c’è prevenzione, non c’è un programma. Noi siamo italiani: eccellenze altrove, disorganizzati, decentrati, altamente promiscui in patria. Anche adesso. Anche in lockdown. Soprattutto nelle città più dense che rischiano di capitolare e disgregarsi: PER Coronavirus e CON Coronavirus. Dove gli ospedali patiscono, ma anche la cittadinanza.
Dalle finestre aperte di questo mite aprile imploso in una stanza buia del centro storico di Genova, risuonano le note, talvolta stonate di un’umanità segregata e poco armoniosa. Verosimilmente le differenze di frequenza si acutizzano in periodi come questo, in barba al facile buonismo ipocrita che invece si vorrebbe a riscatto, o per esorcizzare, un periodo buio come questo. Io non credo alla memoria storica e nemmeno a quella a breve termine. Non credo a che andrà tutto bene, perché è già un disastro e non credo che serva a qualcosa. Passato il santo passato il miracolo, gli infermieri e i medici che oggi sono eroi, verranno scaricati domani. Perché chi poco santo lo era prima, dopo sarà un demone che sbava per la sopravvivenza del proprio status quo. Esattamente come chi speculava prima, ora va a nozze e dopo (perché ci sarà un dopo), farà gran festa. Come sempre è stato. Da sempre. Non è questione di essere negativi, ma realisti.
Mentre penso a questo, la ragazza al piano di sopra suona Bella ciao al flauto traverso. O meglio, sta cercando di mettere insieme quelle quattro note, ma si arena immancabilmente su quel Mi ostico che non le viene. Ed è un’ossessione. La ragazza in questione è mia figlia, in quarantena post rimpatrio in Italia. A proposito, devo ancora abbracciarla. È da Natale che non lo faccio. La vecchia di fronte urla da dietro alle finestre di smetterla, che ne ha i coglioni pieni di questi comunisti. Il vecchio dell’appartamento a fianco scatarra e tossisce in piena sintomatologia virus. Lo si sente come in lontananza, abbandonato dal mondo. Già dimenticato; non apre le persiane da circa un mese. Il suo autoisolamento è un’auto sepoltura. E ce ne sono tanti di dimenticati dal sistema. Sono vecchi ma anche giovani. Non c’è tempo né risorse per tutti e qualcuno resta indietro. “Restate a casa” recita il mantra, “per il bene di tutti”, ma poi nessuno si cura di chi si ammala dentro. Incongruenze. Questo è lo stato di fatto. Questo è lo Stato. Non sono stato io. Non sei stato tu. Ma siamo stati tutti. Io ho paura. Non del Coronavirus, ma di questo: dei dimenticati. Della mancata fiducia nel mio Stato.
Che questa fase di chiusura e distanziazione sociale obbligata sia necessaria, è innegabile. Per quanto possa andare avanti, questo è evidente: non per molto. L’economia va in rovina ma con essa anche le microeconomie domestiche della plebe. Inclusa la sua tentata addomesticazione, perché non per tutti la pena è la stessa di fronte ad un invisibile male comune. Andando per ordine. C’è segregazione e segregazione…
dipende dai punti di vista e da tante altre belle cosette. C’è, per esempio, chi vive la sua segregazione in villetta con giardino di enne mq spalmati su due piani (come nei miei tempi d’oro quando abitavo nella provincia veneta). L’isolamento è una pacchia: niente lavoro, magari un lavoro dipendente, quindi con una minima possibilità di ricevere ancora qualcosa a fine mese, per il resto solarium, letture, grigliate in famiglia da postare su Facebook, contestualmente ad altre fesserie, e poi magari tirare fuori la piscinetta per i bambini, che ora fa caldo, pulire finalmente la soffitta, riordinare il garage, o fare giardinaggio. E poi ci sono tutti gli altri. Nell’ordine, chi ha un terrazzo, un balcone e chi niente e magari vive in tre stanze con i bambini che scalpitano. Ecco a chi servirebbe d’ordinanza un’ora d’aria e di luce. Perché è la luce che detta gli stati d’animo. E la speranza. Al buio, si muore da soli. Manca l’aria, il sole, la vitamina D e l’umore se ne va a ramengo come la voglia di vederci chiaro, o di intravedere un minimo di futuro. Il buio abbassa le difese immunitarie. Questo è un vivere dispnoico a priori. Mentre scrivo, proprio ora, in questo momento medesimo, c’è una signora un paio di finestre più a destra, che minaccia di nuovo di ammazzarlo con le sue stesse mani (non so a chi si riferisca), ma la colonna sonora di piatti rotti lascia poco all’immaginazione. Ieri era la batteria di pentole. Faccio per chiudere la finestra, quella dalla quale, se mi sforzo riesco a cogliere un raggio di sole dalle 14 alle 15 e risuona la voce per lo stretto vicolo di un nigeriano in evidente stato alterato. Urla e barcolla. Urla qualcosa tipo che ha fame, che sta male e che non può continuare così e poi altro che non capisco. Mi affaccio ed è già sparito dietro all’angolo. Lo sento ancora in lontananza, perché qui, i muri alti delle vie strette fanno da cassa armonica alle tragedie individuali. E all’aspirapolvere. Li senti a distanza di isolati e se ti alleni riesci a mappare le pulizie di primavera di un intero quartiere.
E poi ci sono danni e danni. Morti e morti. Mascherine monouso nere di settimane. E le risse, che per strada ormai scoppiano ad ogni rigurgito. E gli extracomunitari senza mascherina che non hanno perso il vizio di sputare per terra quando ti incrociano nel vicolo. Alla faccia della sterilizzazione di scarpe, indumenti, mani.
Sono mille le realtà che da questo periodo. E sanno già che non ne usciranno. Chi vive solo. Chi vive solo sulla piccola pensione (che non riesce più ad andare a riscuotere). Chi vive solo sulla piccola pensione dell’anziana madre. Doppio rischio. Beffardo, ché la vecchia generazione se la sta spazzando tutta. E poi? E poi la disoccupazione peggio di prima. E poi chi aveva un lavoretto in nero per tirare avanti. Chi rubava. Chi viveva di attività illecite. Chi si era appena indebitato per aprire la sua piccola attività. L’artigiano. Il sarto. Il parrucchiere. Insomma, al di là di moralismi e moralità, di una buona fetta di popolazione di questa pentola a pressione che è il centro storico. Questa è una resistenza destinata a cadere. Una bomba a orologeria o a grappolo, perché qui si vive pigiati e promiscui tra i muri scrostati dei palazzi fatiscenti, e se esplode uno, esplodono in tanti. Qui, tra le vie anguste e puzzolenti nelle quali dribblare una cacca e una pisciatina di cane e di umano; le riconosci dall’altezza sul muro: circa trenta cm per il cane, un metro variabile, quella “umana”.
Qui, dove dopo una certa ora nemmeno la polizia sia azzarda ad entrare, bolle il brodo di un disastro annunciato. Se non il virus, sarà la disperazione.
Ma, per il momento, Buona Pasqua.