La mente di un dislessico pensa per immagini. Per fotogrammi. Ecco perché i concetti astratti possono metterla in crisi. Nemica della dislessia è anche l’ansia da prestazione: i tempi pressanti, gli imperativi, le prese in giro…Ma la dislessia è un meraviglioso film dalla trama complessa. Vale la pena permetterne il montaggio.

Qui un brano tratto da un mio romanzo inedito.

INCUBOPPORTUNITA’

Oggi è una mattina piovosa. Inizia a fare freschino e sono di fretta. Arrivo trafelato alla fermata del quarantaquattro. Per fortuna non è ancora passato. Lo capisco dal numero di persone in attesa dentro e fuori dalla pensilina di plexiglass. Sono un po’ in ansia. La giornata di oggi è molto importante. Mi metto in fila ma poi mi rendo conto che non esiste una fila, perché in Italia non c’è questa usanza. Infatti, è una massa umana scomposta. Quando il bus arriva, i presenti diventano calca, un magma in cui ognuno spinge per salire per primo con il risultato che l’entrata si ingorga perché l’agglomerato umano fa da tappo e nessuno riesce più a defluire. Allora l’estremità posteriore di questo agglomerato inizia a spingere così forte finché il tappo si stappa verso l’interno. Mentre succede tutto ciò io osservo. Pur con ansia crescente, non riesco a partecipare attivamente alla performance che ho davanti e attendo che il versamento umano cessi, per poi tentare di salire. L’apprensione aumenta. Ho paura di non riuscire a salire, una volta saliti tutti. Anzi proprio perché sono saliti tutti. E se non ci fosse più posto? E se mi si chiudessero le porte sul muso proprio mentre sto per salire? E se il conducente non mi vedesse e mi chiudesse incastrandomi tra le porte? Allora ecco che infine mi metto a spingere anch’io…Ci sono! Sul bus è buio, o comunque non c’è abbastanza luce. Non mi curo della luminosità della location bizzarra, e trovo un po’ di posto in fondo, pressato tra una bionda voluminosa e un ragazzo sui vent’anni. È sul bus n. 44 che si tiene la prova a tempo di inglese per la certificazione. A me serve questa certificazione. Sono già docente di inglese e bilingue. Non dovrei avere problemi, ma mi serve dannatamente questa certificazione, da cui l’ansia che per qualsivoglia motivo non riesca a farla come si deve. Ho bisogno di ottenere un buon risultato, ma non vedo perché dovrebbe essere altrimenti. Sono molto preparato. Tuttavia, il parlottio generale e la luce fioca mi preoccupano. Capirò le consegne? Vedrò bene il testo? Il bus è in sosta alla fermata e il rumore di fondo del motore non aiuta. Un docente-controllore legge le istruzioni che capisco a malapena. Pare ci sarà una prova di listening & comprehension (ascolto e comprensione), vari esercizi di completamento, i classici vero-falso e un brano da leggere con domande di comprensione alle quali rispondere. Niente di nuovo, insomma. Il docente-controllore consegna le schede ai partecipanti. Sono scritte in un font assurdo, mai visto prima, sembra quasi cirillico e la dimensione del carattere è piccolissima. Mi servirebbero gli occhiali. Ma non li ho. Poi mi viene in mente che io non ho mai portato gli occhiali. Eppure, oggi mi sarebbero serviti. Un altoparlante inizia con la lettura del brano, ma vuoi per il fragore prodotto dal bus ora in corsa, vuoi per quelli che parlano e disturbano, capisco poco e niente. La stessa voce dell’altoparlante è distorta. Strano che il docente-controllore non se ne accorga e soprattutto che non richiami nessuno per fare un po’ di silenzio. Diamine! In fondo è una prova d’esame. Una prova seria. Quando l’altoparlante finisce la lettura, mi viene chiesto chi fa cosa, come, dove e quando la fa. Non ho capito ‘quando’, perché in quel frangente il bus frenava, producendo uno stridore assordante di freni e di ferraglia, tanto che tutti abbiamo dovuto pensare a tenerci, per non cadere o scivolare dalla posizione seduta sui sedili di plastica lucida. Alla fermata di poco fa era scesa una ragazza mora con le lacrime agli occhi. Temo abbia già gettato la spugna. Mi sono precipitato a sedermi al suo posto, ma la mia giacca a vento di nylon liscio, contribuisce a rendere molto instabile la mia posizione seduta. Ad ogni frenata scivolo in avanti. Alla fine, non riesco a rispondere. Non riesco a rispondere nemmeno alla domanda ‘dov’è fa quel ‘qualcosa’ il ‘chi’, che mi pare essere un turista che chiede informazioni, perché la voce dell’altoparlante a un certo punto si è interrotta e ha ripreso più avanti. A parte la ragazza mora scesa al volo, nessun altro dei partecipanti mi sembra turbato dalla cosa: l’elementare difficoltà di accedere alle informazioni che dovrei avere per eseguire il test. È possibile che solo io lo abbia notato? Sono in ansia. Possibile che solo io incontri difficoltà di accesso a quelle informazioni che mi servono per rispondere? Di fatto il tempo è già scaduto e l’altoparlante annuncia già la seconda prova. Nemmeno le mie rimostranze esplicitate al docente-controllore di guardia hanno avuto alcun successo.
“Mi scusi, ma non si è sentito cosa diceva. È possibile riascoltarlo?”.
Nessuna risposta.
Le regole sono chiare: “non disturbare il docente-conducente e nemmeno il docente-controllore”.
Il docente-controllore è un uomo sulla cinquantina, scuro di capelli e con occhi cerulei, che mi fissa con un’espressione impassibile, come se non avessi detto nulla. Mi sento trasparente, inadeguato e inizio a pensare di aver fatto una domanda fuori luogo, visto che sono l’unico a essere così visibilmente preoccupato. Intanto l’ansia sale perché, mentre parlo, la voce dell’altoparlante ha già dato istruzioni di passare alla prova seguente, per la quale dovremmo avere circa trenta secondi, o almeno credo, perché non ho potuto sentire, e perché stavo, appunto, ponendo la domanda al docente-controllore. Poi intuisco che si tratta di rispondere se “è vero che un certo Mr Smith ha fatto qualcosa” o se “non è vero che un certo Mr Smith ha fatto qualcosa” e poi se “è vero che non è vero che un certo Mr Smith ha fatto qualcosa” e infine se “non è vero che è vero che un certo Mr Smith non ha fatto qualcosa”. Ciò che un certo Mr Smith ha fatto o non ha fatto, però, non lo avevo capito, per le cause suddette. Come posso dunque rispondere se è vero che è vero che ha fatto o non ha fatto qualcosa, o se è vero che non è vero che ha fatto o non ha fatto qualcosa? La testa inizia a girarmi e mentre penso a tutto ciò, la voce dell’altoparlante annuncia l’avvicinarsi della scadenza del tempo a disposizione per l’esercizio numero due, in uno snervante countdown. Ed è già tempo per la consegna della prova numero tre. Per fortuna questa consegna è riportata anche a inizio esercizio sulla scheda che ci è stata consegnata. Ma intanto il bus è entrato in galleria e la luce, già scarsa, è ora così flebile che non riesco a leggere. Le parole sono scritte in un altro font inconsueto e il carattere troppo piccolo da decifrare correttamente e nei tempi dati: pochi secondi. Sballottati di qua e di là dal bus in corsa, le lettere sfuggono al controllo e le righe non sono più parallele; si accavallano e a un certo punto si intersecano e dove si intersecano, il discorso riprende la frase dell’intersecante. Impossibile leggere. Impossibile dare un senso, se mai ci fosse, al test ai quesiti e a  tutto questo. L’ansia sale ulteriormente e sta diventando incontrollabile. A vedere dai buchi nel testo sottostante da completare, credo si debba inserire la parola corretta da scegliersi da un elenco. Ma dov’è l’elenco? E mi accorgo che l’elenco delle parole non è scritto, ma scorre, anzi no sembra quasi fluttuare a caso, sullo stretto schermo rettangolare appeso, in alto, nella parte anteriore dell’abitacolo del bus, proprio alle spalle del conducente: lo schermo che dovrebbe annunciare la fermata che segue. Ne ho già perse sicuramente una decina e ormai anche l’esercizio numero tre è andato quasi in bianco. Colgo solo un paio di aggettivi e un avverbio che inserisco a caso, perché non riesco a leggere il testo in miniatura che ci è stato proposto. Inizio a pensare che questo test sarà un vero disastro. A me la certificazione serve, non posso farne a meno per il mio lavoro! All’improvviso noto un posto libero nella parte anteriore del bus e mi sposto velocemente nel disinteresse del resto dei passeggeri, intenti a svolgere la loro prova. Mi sembra di vederci meglio, c’è un po’ più di luce, ma non mi accorgo che il sedile si trova proprio sopra alla ruota del bus. Ora ci vedo meglio, ma la vibrazione è maggiore e per nulla d’aiuto quando dovrò scrivere. Intanto chi ha già finito chiacchiera, producendo un brusio snervante di fondo, che copre anche il pensiero logico. E l’ansia sale ulteriormente. Inizio a domandarmi fino a che punto l’ansia possa salire. Se esiste un momento culminante e come lo si può riconoscere e in che cosa può consistere, visto che il mio stato è sempre e solo in costante fase crescente. Mentre ragiono sul concetto di ansia, è già scaduto il tempo per completare la prova numero tre e viene annunciata la quarta prova. Altra prova di comprensione: lettura individuale di un brano e rispondere ad alcune domande. Inizia la nausea, non so se per il bus che ha preso una strada montana tutta a curve o per il fatto che, di nuovo, le righe si confondono. Mi ci vuole un tempo inverosimilmente lungo per leggerlo tutto. Figuriamoci per rispondere per iscritto. Qui non ci sono crocette. E dulcis in fundus, si è anche scaricata la Bic. Merda! Penso che in condizioni normali sarebbe una passeggiata. Ma oggi non riconosco queste condizioni come normali. Tuttavia, nel momento in cui mi accingo a decodificare le domande di comprensione, l’altoparlante decreta lo stop. Il tempo per la prova di inglese è finito e il docente-controllore inizia a ritirare i fogli. Cerco di sfruttare al massimo quei pochi secondi a disposizione, mentre raccoglie le schede dei passeggeri seduti davanti a me, due davanti e due di fianco, ma riesco a rispondere solo alla prima delle dieci domande. Un disastro!
Mi sono fumato la certificazione.
Impreco silenziosamente, ma sento di essere invece visibilmente affranto. Mi vorrebbero scendere delle lacrime, ma alla mia età non sembrerebbe consono, per un uomo, piangere su un bus pieno di gente, per un test andato male. È in quel momento, che sento una voce lontana chiamarmi.
“Tesoro, sveglia!”.
È la sveglia, l’unica presenza femminile, ormai, in questa casa.
 
Accidenti, un altro incubo. Cerco brevemente di analizzarne i significati più evidenti almeno in apparenza. Io sono docente di Italiano e non di Inglese; sono una schiappa in inglese; è un periodo che non dormo bene; ho spesso mal di testa; credo che mi sia peggiorata la vista. Ok, intanto farò dei controlli.
Poi, mi viene in mente la Baggio. Serena Baggio è una mia alunna di quarta di quest’anno. È dislessica, eppure è una iena in inglese, che invidia. Ma lei l’inglese non lo ha imparato a scuola, ma viaggiando con la famiglia e frequentando scuole in giro per il mondo. La Baggio ha un QI superiore alla media, ma questo non lo sa nessuno. Forse nemmeno lei. Non sa coniugare i verbi ma li usa correttamente quando serve. Se gli chiedi “dimmi il passato prossimo della voce del verbo rimediare, prima persona singolare”, lei ti guarda con una faccia stralunata. Probabilmente nella sua mente si stanno affollando gli schemi di tutti i libri di grammatica che ha incontrato nella sua vita e le informazioni si stanno confondendo senza logica apparente, causando una massa informe ed aggrovigliata di informazioni, impossibile da dipanare per discriminare il contenuto appropriato e rispondere al mio quesito. Questo perché lei funziona come un film. Vive per immagini. Ma è un film ancora in fase di montaggio.  Tuttavia, se le dico che ha ancora la media del cinque in italiano, lei mi ricorda prontamente che “non è vero prof! Se l’HO già RIMEDIATA!”. E io le rispondo prontamente “Vedi, hai usato esattamente la voce verbale coniugata nel modo, tempo e persona che ti avevo chiesto”. E lei ride. E io anche. Serena fino a qualche anno fa era serena solo di nome, perché non ha mai avuto vita facile. Meno male che le cose stanno cambiando. Almeno sta iniziando ad accettarsi per come è. Per il resto del mondo ci vorrà tempo. Forse il processo inizierà quando lascerà i banchi di scuola. Lei, però, sta iniziando a piacersi e a compiacersi di questo. Le ho spiegato mille volte che essere dislessica è oggi un gran valore aggiunto. Che il suo pensiero divergente, eccentrico, la sua capacità di problem solving fuori dagli schemi, sarà la sua carta vincente. Soprattutto una volta fuori di qui. E che lei ha proprio le doti che richiedono questi tempi malati. Lei, che malata non è, ma ha dentro di sé le soluzioni. Allora si sente un po’ meglio e l’autostima sale di qualche tacca. Ma io credo che sia una pioniera. Penso alla vitaccia che ha fatto per avere qualche soddisfazione, e sento che presto prenderà il volo! È una ragazza in gamba.
Serena ha i capelli biondi color dell’oro e due occhi azzurri così intensi che quando ti guarda ti ci perdi. È proprio bella. Ma lei questo non lo sa. O se lo dimentica. Un po’ come tutte le adolescenti, umorali a giorni alterni. Un giorno si sentono Belen, il giorno dopo la figlia di Fantozzi.
“Prof sono stufa di essere presa in giro! E so che questo sfogo le sembrerà infantile, ma adesso basta! Bisogna fare qualcosa! E non lo dico solo per me! Lo dico per tutti quelli come me e per quelli come loro! Non voglio pensare a cosa diventeranno una volta fuori di qui…”, mi confida un giorno con le lacrime che premevano per fuoriuscire dall’incavo degli occhi. Ma lei è allenata a trattenerle. Con il “me” intendeva tutti i ragazzi e le ragazze solitamente presi di mira dai bulli e con “loro”, appunto, i bulli.
“Bresolin non ci molla, solo perché va peggio di me e mi ha chiamata ancora dislessica di m…puntini, puntini. A parte il fatto che io non so cosa c’entro, ma poi lo ha scritto su WhatsApp e poi su FB. Anche se io non ci sono su Facebook. E ha aggiunto una foto che mi deve avere fatto con il telefonino senza dirmelo, aggiungendoci dettagli cretini…”. Me lo rivela con nervosismo che gli si gonfia la vena giugulare. Penso che potrebbe scoppiare da un momento all’altro. E prosegue.
“L’ho saputo da Jamila che mi ha mostrato il post. Idiota di m…puntini…puntini…”.
Per arrivare a dirlo a qualcuno di adulto, ci ha messo quasi diciassette anni. Intanto, però, ha somatizzato il disagio sul suo corpo. Serena è piena di piaghe. Si gratta fino a crearsi delle ferite che si aprono ogni qual volta è nervosa, in difficoltà o infastidita da qualcosa o qualcuno. È diventato un riflesso che non riesce a controllare. Quasi che il dolore che si auto provoca vada a coprire il dolore causato dai piccoli soprusi quotidiani. E così è diventato un vizio.  Anche con le sue cicatrici resta comunque una ragazzina bellissima.  Le cicatrici raccontano la sua storia che parte da lontano, praticamente dal primo giorno che ha varcato il cancello di una scuola.
L’anno scorso per esempio è successo un fatto disdicevole. Mentre la terza D scendeva per le scale in uscita a fine mattinata un paio di compagni l’hanno strattonata fino a strappargli lo zaino di dosso. Non paghi, hanno iniziato a prenderlo a calci. Serena si è messa a piangere, non tanto per lo zaino ma per il gesto e per quello che conteneva il gesto. E lo zaino: il suo computer. La sua memoria, la sua vita scolastica. Essendo dislessica, disgrafica e discalculica, nomi altosonanti che tuttavia non definiscono alcuna patologia, ma un diverso approccio di apprendimento, è come se a calci fosse stata presa lei stessa. I ragazzi sono stati sospesi, anche se con frequenza, e hanno dovuto fare un grosso lavoro di recupero con tutta la classe. Perché questi fatti segnano tutti. Sono affare di tutti. Nessuno escluso.
Ho pensato che io sono allergico alla polvere e giro sempre con il mio spray broncodilatatore nella borsa. Ne ho spesso bisogno, specialmente in quei luoghi dove si fa poca prevenzione, scuola compresa. Serena ha il suo computer. Io il mio broncodilatatore. Le cose sono due: o si fa prevenzione e si crea un ambiente adatto per il benessere di tutti, o guai a chi tocca il mio antidoto!
 
“Serena, non ti preoccupare che quando saranno fuori da scuola, ci penserà qualcun altro a metterli a posto”, le dico. E mentre lo dico, mi accorgo di aver detto una cazzata. Mi riprendo.
“Per quanto riguarda il qui e ora, ci penso io. Adesso chiamo subito Bresolin. Faremo dieci minuti di ritardo a lezione. Forse la Zanon mi può sostituire, visto che, in teoria, ha finito e sta per uscire. Aspetta che la blocco”.
 
Bisogna affrontarle subito le cose, senza rimandare. E mi attivo. Non sarà un colloquio inquisitorio. Voglio solo ascoltarli. Voglio che si parlino. Piccole gocce nel mare. Piccole gocce che però fanno il mare.
I genitori di Serena mi hanno raccontato del perché è fuori dai gruppi WhatsApp della classe. Hanno scoperto conversazioni oscene a lei dirette. Si vergogna, la madre, quando me lo racconta. Non vuole farne un gran caso. E tuttavia non sono più ragazzini. Ma non vuole affrontare la madre del ragazzo in questione; sa già che la trascinerebbe in basso e la batterebbe in esperienza. Per esperienza, sa anche che il preside non ne farà gran cosa. Sono fatti successi in ore extra scolastiche… Parla con me, perché sa, invece, che io sono in classe e i ragazzi li vedo tante ore. Ecco. Vederli. Vederli e guardarli. Se non ci si ferma a guardarli, si rischia di non vederli nemmeno. Il bullismo sommerso si nutre d questo: della sua invisibilità di cui si camuffa e che noi adulti non vediamo.
 
Poi un giorno il cambiamento. E una nuova luce negli occhi della Baggio. Sono contento di esserne stato testimone. Quella luce che dice che ce la può fare. Quella di quel brandello di autostima che ha fatto capolino nel momento opportuno e che ora cresce.
“Prof Gentile se ha un attimo le racconto una cosa”, mi chiede quel mercoledì, facendomi toc toc sulla spalla. Lo ha sempre fatto. Buffo, no? Una piccola intimità che si concede pur continuando a darmi del lei.
“Ieri in biblioteca è successo qualcosa e non so ancora se è un bene o un male”, aggiunge lasciandomi in sospeso.
Io la guardo incuriosito e mi domando cosa possa mai essere successo in un luogo pubblico come la biblioteca comunale. E di pomeriggio.
“È successo che eravamo lì io la Jamila e la Clara a studiare per il lavoro di gruppo…e poi sono entrati Bresolin e Bizzotto a hanno iniziato a sfotterci. A me, soprattutto, che pare sono diventata lo sport nazionale preferito…”
“Che sia…Congiuntivo”
“Che sia…”
“Cosa ti hanno detto?”, chiedo quasi sottovoce.
“Non è solo cosa mi hanno detto, cioè il solito “dislessica di emme…puntini, puntini” o “ciofeca umana” o “ma chi ti si fila”, eccetera, eccetera, ma ciò che hanno fatto. Bresolin ha preso il mio libro di scienze e lo ha scagliato contro uno scaffale dicendo che tanto a me non serve, che non lo uso perché ho il computer, che sono privilegiata, che leggo di emme…puntini…puntini…eccetera, eccetera…”.
Serena non dice mai “merda” dice ‘emme…puntini puntini’ e mentre lo dice il viso avvampa e gli occhi non sono più lucidi di lacrime come sarebbero stati normalmente e come forse lo erano in quel momento di cui racconta, misti a rabbia. Hanno una luce diversa. Mi aspetto che non abbia finito. E infatti.
“…E allora mi sono alzata ho raccolto il libro che si era staccato dalla copertina. Uno schifo. E non ci ho visto più. Loro ridevano a crepapelle e io ho sentito le gambe spingermi verso Bresolin e una forza indescrivibile alzarmi il braccio destro…Non so bene come ma insomma gli ho mollato due schiaffi. Uno di andata e uno di ritorno. Ma così forti che aveva cinque dita rosse in faccia. Cinque per due dieci. E poi ci fu un silenzio generale e sono tornata al mio posto”.
La guardo basito. La Baggio che sferra un’andata e ritorno a Bresolin non me lo sarei perso per nulla nella vita. Lei, così timida che si vergogna persino della sua stessa ombra!
Avrei voluto applaudire. Eh sì, ammetto che sono di parte.
“Lo so che non avrei dovuto alzare le mani, prof”, prosegue. “Lo so benissimo che è sbagliato, ma è successo. Ma prof, sono anni che questi mi prendono per i fondelli. E, insomma, non sono più riuscita a trattenermi. Le parole feriscono più di un pugno. Lei la sa sta cosa?”.
 
Per un attimo non so cosa dire. Eppure, sì, la so sta cosa. So esattamente che è così, per esperienza diretta. Mi limito ad annuire con il capo, ma la luce nei suoi occhi mi dice che quel gesto, pur non corretto, le ha dato nuova fiducia in sé stessa. E così mi scappa un istintivo “Evvai! Affondato!”.
Rie.
Rido.

(Tratto da “Il Cercatore di Meraviglie”, S. Contardi, 2018)