SI E’ FATTO TARDI…MOLTO PRESTO
Alice: “Per quanto tempo è per sempre?
Bianconiglio: “A volte solo un secondo”
(Alice nel Paese delle Meraviglie)
Ci sono persone che sono lumi che brillano di vita propria, ma che in certi contesti rischiano di spegnersi da un momento all’altro. Uno di questi contesti è la Scuola. E uno di quei lumicini è la maestra S.
Ogni giorno, S. e corre come una pazza. Il suo carburante sono i suoi bambini, gli unici che la riescono ad alimentare nella speranza di fare una buona scuola. E la fa. Il fatto è che quando tutto intorno è buio pesto, hai paura a brillare di troppa luce e allora opti per una luce discreta, quella del miglior compromesso possibile; sapere di potere fare molto, ma fare il massimo di ciò che è consentito. Ma S. è sola. O meglio non è sempre in buona compagnia. Vive all’interno di un sistema. Il sistema scuola. E’ circondata da avvoltoi e dalla fuffa burocratica. E, se non si scoraggia, sarà già a metà dell’opera.
Arrivo dopo un viaggio allucinante nell’Istituto Comprensivo X, uno come tanti che mi capitano, invitata da una giovane, dolce e illuminata maestra di provincia, che mi accoglie con affetto genuino. Il tutto, viaggio a parte, sembra partire sotto i migliori auspici. La maestra S. parla con entusiasmo dei suoi progetti, cammina spedita, ma senza nervosismo; conserva un’aurea di serenità e pacatezza, inusuale per certi luoghi. Ma non appena varcato il portone istituzionale, mi ritrovo a inseguire il tempo con il Bianconiglio. “E’ tardi! E’ Tardi!” E devo fare i conti con i ritmi disumani che regolano quel mondo e oggi anche il mio intervento nelle classi, tra cambi d’ora, la mensa, le entrate, le uscite, l’incontro con la dirigente, il passaggio burocratico in segreteria, e se va bene mezzo toast in piedi e si ricomincia, per poi schizzare a prendere un trenino fatiscente che mi riporterà sulla via del ritorno. Ci si consce correndo su per le scale, si discute di didattica, di libri, argomenti che meriterebbero una giornata intera, mentre ordiniamo e beviamo il caffè; senza zucchero perché se devo cercare anche lo zucchero, perdo secondi preziosi. E via. Tempi allucinati. E lo paleso.
“Voi siete pazzi”, mi limito a dire.
“Hai ragione…”, mi risponde con un velo di tristezza la maestra S., che si scusa e non approva, ma in quel sistema ci deve pur sopravvivere. Non fosse che in questo circo, sono condannati anche loro. Loro per i quali noi siamo qui: i bambini. E tutto vola, nulla si approfondisce, tutto sottostà ai tempi strettissimi, regolati dall’isterismo delle campanelle e delle maestre-generali di battaglione. Almeno è quello che vedo oggi. Non è la prima né l’ultima volta. Ma oggi lo noto di più.
Forse sto solo invecchiando…
In una classe mi accoglie una maestra che tanto mi ricorda la Pennarossa del libro che sto per leggere. Fischia più volte come un ossesso, con un fischietto da arbitro, per richiamare all’ordine la cosiddetta “classe difficile”. Io sulla soglia indugio e non vorrei entrare.
“Io qui non ci entro”, dico a mezza voce e con fare ironico (ma mica poi tanto) all’insegnante di sostegno, appena conosciuto, un ragazzotto neolaureato.
“Questa mi mette l’ansia”, aggiungo.
“Se è per questo anche io non condivido certi modus operandi”.
“Fallo presente. E’ un tuo dovere e un tuo diritto”.
“Figurati, sono qui da un mese”.
Certo, che suggerimento sciocco. Ma dove vivo?
Sono seriamente preoccupata. Ma lì ci devo entrare. E ci entro con riluttanza. La presenza di S. mi dà coraggio. E l’aspettativa dei ragazzi è alta. Lo capisco non appena fanno silenzio. E non è stato il fischietto. Allora decido che non posso fare i capricci. Che è per quello che sono lì. Improvviso e ironizzo subito sul concetto di tempo, complici i loro sguardi e il loro magico silenzio e cerco lo sguardo dell’arbitro con gli occhiali di Dolce e Gabbana (in fondo “Il Chupacarta, ladro di compiti”, parla proprio di tempo, rubato). Il ‘tempo’ sarà il fulcro di tutto il mio intervento. Cerco di cacciarcelo dentro anche in quello che non abbiamo, ed è davvero un parossistico paradosso, perché la strillatrice avverte già che “big ben ha detto stop”. Lei, che a differenza della sua “classe difficile”, attentissima e mai passiva, ha smanettato tutto il tempo sul cellulare. E loro li vedi, vorrebbero fermarsi: dire, fare, domandare. Ma nessuno li ascolta. Manca il tempo. Manca la voglia (non si sa bene cosa sia iniziato a mancare prima), di rompere gli schemi, almeno per una volta.
“Ti prego maestra, possiamo finire la storia?”,
“No, c’è la mensa”.
“Posso fare un’ultima domanda?”
“No, non c’è più tempo”.
Follia condivisa nella mutua accettazione. E dunque dogmatica.
Nell’altra classe, le regole sono le stesse. Ma vige un altro tipo di rigidità. Quella di contenuto.
“Non si fanno domande stupide”, esordisce perentoria la maestra.
Io magari sbaglio, ma non ho mai creduto che ci possano essere domande stupide: lo sono spesso le risposte.
E partono le domande sparate con la mitraglia, in cui il mio tempo di reazione e di risposta, deve repentinamente adeguarsi ai ritmi di questo gioco. Domande pertinenti. Talvolta preparate, talvolta spontanee. E sono quelle che mi piacciono di più.
“Quando hai iniziato a scrivere?”
“Come hai capito che avevi la passione della scrittura?”
“Qual è il tuo scrittore preferito? Il libro preferito? Il tipo di libri?
“Scrivi anche poesie?”
Eccetera eccetera.
Poi un bimbo chiede, genuino:
“Ma in che anno sei nata?”.
Considerando che leggono autori morti e sepolti e che a scuola li ammorbiamo con nozionismo pret a porter, il che contempla anche le date di nascita e morte di tutti, direi che non è affatto fuori luogo. E’ lecitissima. Forse gli sembro vecchia. O forse gli sembro giovane (rispetto a quelli morti).
Mi accingo a rispondere, ma il generale mi blocca:
“L. stai zitto. E’ una domanda stupida. Non si chiede l’età. E lei (cioè io), non si azzardi nemmeno a rispondergli”.
Rimango basita. E invece mi azzardo, eccome. Perché io sono disubbidiente.
“Sono nata nel 1970. Ho quarantotto anni e l’ultima volta che mi hanno intimato di non azzardarmi a dire qualcosa sarà stato almeno quarant’anni fa…Ed era mia madre”.
Rido.
Ride.
Lei un po’ meno, ma incassa.
Forse ho esagerato?
Ma sono dentro ad un Risorgimento. Avrò pure soli tre minuti, ma ci faccio la rivoluzione.
E proseguo a rispondere alle domande a raffica.
E, alla fine, ti accorgi che ne vale sempre la pena spararti centinaia di km tra freddo e disagi logistici, quando ti senti dire cose come queste (cito in ordine sparso):
– “oggi dopo quello che ci hai detto, mi è venuta voglia di scrivere un libro anch’io” (gongolo);
– “ma lo sai che sei simpatica? Non pensavo che gli scrittori lo erano (fossero?)” (i bambini sono la bocca della verità. Ne evinco che io non sono uno scrittore);
– “questo libro è davvero divertente” (forse si riferisce allo show? Ma va bene lo stesso. Si sono sparati un’ora è passa di lettura nell’ attenzione TOTALE. Vuol dire che qualcosa lì, invece, c’è. Ancora. Nonostante tutto. È nei loro occhi);
– “pensavo che gli scrittori fossero tutti morti” (Roald Dahl, tiè! Almeno ho margine per migliorare);
– “c’ero io! c’ero io! ” e si spintonano per un autografo su un coriandolo di carta strappato dal quaderno, manco fossi una rock star.
Tradotto, fondamentalmente, è questo: l’entusiasmo dei nanetti in cattività (ai quali mi inginocchio per la loro grandezza) che si ricarica, se vedono un barlume di possibilità per forzare le sbarre del recinto che gli costruiamo addosso ogni giorno.
Nel viaggio di ritorno, continuo a rifletterci. Il pensiero non mi molla.
In questo contesto i piccoli e i grandi lumi, invece di essere alimentati, rischiano di spegnersi anzi tempo. Il risultato è devastante. I bambini non sono più bambini; sono vecchi alti un metro e un tramezzino, specchio di un’adultità andata a male, che per frustrazione se la prende con i deboli invece che con i forti. Poi non possiamo lamentarci: se loro sono apatici, è perché noi siamo apatici. Se sono superficiali, è perché noi siamo superficiali. Se sono ignoranti, è perché noi siamo ignoranti. Se sono violenti, è perché noi siamo violenti. Se non ci ascoltano, è perché noi non li ascoltiamo. E mi fermo, ma potrei continuare.
Siamo certi che è proprio ciò che vogliamo? Vogliamo creare mostri a nostra immagine e somiglianza? No, perché è proprio quello che stiamo facendo. E qui si è fatto tardi, molto presto.
“E’ tardi! E’ tardi”, mi strilla il Bianconiglio.
E mentre corro, penso che la Scuola non dovrebbe essere un campo santo di fuochi fatui, ma una centrale dell’enel!
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Piccola riflessione linguistica di rito.
Enantiosemie a spasso nel tempo.
‘Scuola’ deriva dal latino schola e dal greco skhole: ‘tempo libero’. Indicava il momento dedicato allo svago della mente, cioè lo ‘studio’. Solo a partire dal secolo XIII, ‘luogo ove si attende allo studio’.
(© Stefania Contardi, 2018)