IL MONDO PERFETTO

Il sogno è l’infinita ombra del Vero. (Giovanni Pascoli)

Non sono più in quarta D al Vivaldi da qualche mese, ma ogni tanto mi giungono notizie. E questo è il lato buono della tecnologia. Ad esempio, della Baggio che pare abbia tirato fuori le sgrinfie, che non le manda più a dire a nessuno. La storia delle foto sbattute sul web è alle spalle. E questa è la parte cattiva della tecnologia. O meglio, dell’uso che ne possiamo fare. Mi dicono che continua ad essere eccentrica e naif come un quadro di Henry Rousseau, a ridere di un nonnulla e a fare battute che fanno ridere solo lei. Ma è bella anche per questo. Allora penso che, forse, il pensiero divergente salverà davvero il mondo, ma solo se noi salviamo prima lui. Di Jamila, invece, nessuna notizia. Degli altri, bè, gli altri mi raccontano direttamente, perché sono sempre tutti iperconnessi su whatsap.

Per quanto mi riguarda, ho sempre mal di testa e avrei davvero bisogno di riposo e di nuovi stimoli. E di dormire bene. Il precariato inizia a rodermi e io l’affitto di questo buco di stanza devo pur pagarlo a fine mese!

“Gentile, ecco, forse lei è solo un po’ stressato”, mi dice il medico di base.

È lunedì mattina e sono già le undici. Sono qui in sala d’attesa dalle nove, orario in cui il medico dovrebbe iniziare le visite, ma pare che la decina di anziani che mi precede, si fosse già appostata fuori dallo studio dalle sette e trenta, per accaparrarsi il posto. Mi domando che senso abbia per un anziano aspettare un’ora e trenta fuori da uno studio, in piedi, al freddo, con gli acciacchi per i quali è lì, per venire a prendere un posto prima che apra, invece di aspettare il proprio turno comodamente seduto e decurtato dell’ora e mezza ante apertura. Ma che fretta hanno? Questi vecchietti sembrano avere un’agenda fitta di impegni che nemmeno un manager della Microsoft! Forse è la vecchiaia. La concezione del tempo cambia drasticamente. Forse, attendere, è un po’ come rimandare quello stesso tempo che ti avvicina all’innominabile. Forse dà l’impressione di vivere di più? Mah, risponderò a questo quesito quando sarà tempo. Forse, un giorno, farò lo stesso anch’io.

“Per gli incubi direi che non è un problema”, mi dice il medico.

“Anzi, le ordino subito qualcosa a base di valeriana e del magnesio, vedrà che dormirà come un angioletto. Per il mal di testa, le prescrivo un po’ dei soliti controlli, esami del sangue, eccetera, eccetera”.

Esco e saluto cordialmente i nuovi venuti, la cui età anagrafica pare diminuire in modo inversamente proporzionale al trascorrere delle ore della mattinata, e me ne vado.

Sono già le ventitré e trenta e sono finalmente a casa dopo due colloqui. Uno presso una piccola casa editrice che mi proponeva un impiego come editor tutto fare, solo se acconsentivo a diventare socio della stessa, e quindi ghostwriter, editor, correttore di bozze, marketing manager. L’altro, presso una multinazionale che cercava un selezionatore del personale con laurea umanistica e senza necessaria esperienza. La ditta è una mega struttura in vetro che si apre con una hall hollywoodiana con piante che sfidano la forza di gravità e ricoprono interamente le pareti per tutta altezza e ricadono in un effetto giungla metropolitana. Le radici non sono consolidate al suolo ma aggrappate in verticale, non so bene come, alla struttura e possono benissimo essere l’emblematica rappresentazione gerarchica e organizzativa della stessa azienda. Non credo di essere piaciuto a nessuno. Ma era reciproco.

Sono stanco e sono a casa da solo. Come, del resto, ormai da un po’ ormai. Antonella mi ha scaricato, vuoi per il precariato, vuoi per la distanza. Due anni lontani più di quattrocento chilometri mal serviti dai trasporti via terra (il via aria non è contemplato), non è per tutti. Lei qui non c’è mai voluta venire: troppo freddo, troppa nebbia, troppa distanza dal mare. E dei due, è l’unica con un contratto decente: lei è Research & Development manager in una grossa ditta di telecomunicazioni. Già il titolo la racconta lunga. E chi la smuove da là. È lei che mi ha procurato il secondo colloquio, al quale sono andato solo per non entrare di nuovo in conflitto. E per gratitudine. Ma a me non ne frega un tubo di stare dentro a una giungla di plastica. Non sono un animale da azienda.

Mi fiondo in cucina per la valeriana e la bustina di magnesio. Mentre mi verso mezzo bicchiere d’acqua in cui scioglierla, sento traballare il pavimento sotto ai piedi. Nella dispensa i barattoli iniziano la loro tarantella che produce quel tintinnio immediatamente riconoscibile anche a chi non lo ha mai sentito. Una scossa di terremoto. Panico. I bicchieri e le tazze sullo scaffale si animano e si catapultano dagli scaffali suicidandosi al suolo. Ma finisce. Al panico si aggiunge il panico di sapere che adesso ne può facilmente seguire un’altra e magari più forte. I sensi si acutizzano e come un animale in allerta cerco di pensare a tutte le mosse da fare, ma non faccio in tempo a pensare. Questa volta è tremenda. E tutto diventa buio.

Mi sveglio e spero che sia stato un altro dei miei incubi. Ma no, ho la schiena dolorante. Mi guardo in giro. Siamo tutti sfollati in una struttura che per metà è la mia scuola, ma che non riconosco nei dettagli, e per metà è una stazione ferroviaria imprecisata con carrozze-notte di treni piuttosto vintage, ferme ai binari. Ad ogni binario corrisponde una sezione e una classe.

Allora penso che devo essere caduto da un sogno dentro ad un altro sogno. Oppure in coma. Ma poi mi accorgo che è tutto vero.

Sui treni si dorme tutti mescolati: i bambini delle elementari insieme agli insegnanti, alle mamme, papà, nonni in una promiscuità felice che sfida i muri delle classi scolastiche e delle classi sociali. I ragazzi della quarta e della quinta liceo si danno da fare a destra e a manca, aiutati dai più piccoli delle medie. Alcuni bimbi delle elementari si curano dei vecchi. In questo caos ordinato, qualcuno dà delle direttive, e dalla voce non è un adulto. Mi accorgo, poi, che è la voce di Bosio della quarta D, Liceo Scientifico Vivaldi. La mia classe!

Bosio che non è più schivo come al solito. Non è più il riservato secchione della classe. Bosio ha anche degli occhiali diversi, con una spessa montatura nera anni Settanta e un caschetto da speleologo. Parla alle masse, dà ordini, consigli, organizza il lavoro da farsi e dà compiti a tutti. Pare che sappia quello che fa, soprattutto sa bene chi sa fare bene qualcosa e che cosa, meglio dello stesso che la sa fare, ed elargisce incarichi e compiti, secondo questa logica. Ce n’è per tutti. Secondo questa sua logica, alcuni ragazzi scoprono di avere doti impensabili come saper scalare,  cucinare, o curare i feriti. Pare che Bosio, malgrado le lenti spesse, ci veda benissimo.

“Bianchi, tu prendi il defibrillatore e il kit di pronto soccorso…sai cosa fare. Randazzo, tu salva tutti i libri. Tieni. Ti serve questo” e gli consegna una torcia che fa una luce pazzesca, tanto che sveglia quei pochi che ancora stavano dormendo. “…Lo so che non ne hai mai preso in mano uno, di libro, ma oggi sarà il giorno del tuo riscatto”, aggiunge. Oltre a torce, caschetti e imbragature giunte da chissà dove, i ragazzi si armano di pazienza, di voglia di fare, di sollecitudine senza che nessuno glielo debba dire. Si mettono all’opera in un incredibile moto sinergico degno di un’organizzazione mondiale di salvataggio. Un po’ ovunque ci sono bambini, vecchi e cani da mettere ancora in salvo e tetti pericolanti da sistemare.  Ma non ci sono più le scale. Bisogna arrampicarsi sui brandelli di muro come l’uomo ragno. Persino Serena Baggio, che ha sempre pensato di soffrire di vertigini, me la vedo penzolare dal tetto della stazione-scuola, operosa come un’ape, intenta a trarre in salvo il bastardino mascotte del Vivaldi rimasto intrappolato. Chi l’avrebbe mai detto! Pensavo fosse anche allergica al pelo del cane o che ne avesse paura. Non ricordo bene.

L’unico che gira e non fa nulla sono io. Mi sento trasparente. Pare che nessuno mi veda. Inizio a pensare di essere davvero morto. Vorrei fare qualcosa ma non riesco nemmeno ad esprimermi. Le parole non escono, e laddove riesco ad emettere qualche suono, non mi capiscono. Accidenti! Mi sento inutile. Inadeguato. Anche se non mi è nuova questa sensazione.

Poi incrocio lo sguardo quattr’occhi di Bosio che mi dice “Lei Gentile, stia tranquillo. Continui a fare quello che sta facendo. Cioè, non faccia niente. Vada in giro e Osservi. Osservi solo. Questo è il suo compito”.

Allora continuo il mio tour quasi invisibile per questo girone di produttività autogestita. Mentre scendo le scale del binario Quarta D per andare a vedere cosa succede altrove, vengo involontariamente spintonato da un signore e una donna che salgono di gran lena. Assomigliano ai nostri bidelli, ma non lo sono. Hanno due trolley pesantissimi a testa, non completamente chiusi, tanto sono pieni. Dai trolley  spuntano dei libri che pare siano stati salvati dalla biblioteca o da qualche classe. Nel sottopasso alcuni bambini distribuiscono coperte ai vecchi, qualcuno cucina della minestra su fornelletti da campo. Sono solo bambini, forse di sette otto anni, ma pare che sappiano quello che stanno facendo.

La stazione-scuola-infermeria è tutto un fermento. Tutti hanno qualcosa da fare. Tutti sanno fare qualcosa e soprattutto tutti sanno che ciò che stanno facendo ha un’importanza fondamentale, per cui è fondamentale farlo al meglio. A detta di Bosio della quarta D, forse perfino il mio Osservare e Basta dovrebbe essere di fondamentale importanza. Ma non riesco a vederne immediata applicazione.

In un cantone della banchina di Prima C alcuni ragazzi leggono dei libri ad alcuni feriti, per distrarli dal dolore. Tre bambine di terza elementare puliscono le ferite, danno punti di sutura, si muovono agili come crocerossine tra le corsie di un disperato ospedale militare. Hanno solo anestetico locale, per cui l’idea di distrarli leggendo loro delle storie tratte dai grandi classici, penso sia grandiosa, oltre che funzionale. Un bambino con i capelli a spazzola e le lentiggini sta leggendo “La dinastia dei Poltroni” di Gianni Rodari alla quale fa eco un ragazzetto di terza che dà la voce a Willy Wonka nella Fabbrica di Cioccolato. Ma c’è anche chi si cimenta con la dottrina delle idee di Platone. Apperò!

Mi sveglio sudato e stanco morto come se avessi scalato una montagna, ma di fatto non ho fatto un bel niente, nemmeno nel sogno. Decido che è tempo di agire. Una buona tazza di tè verde, tanto per iniziare. Entro in cucina e le tazze nella vetrina sono tutte al loro posto, i bicchieri anche. Incolumi.

Bosio mi ha mandato un messaggio sul cellulare.

“Professore, come sta? La prego torni da noi. La Zanon è pallosissima, per non parlare di quello di filosofia. Poi, come diavolo fa uno che si chiama Tagliacozze a decidere di fare l’insegnante!”

Sono ancora frastornato e confuso dall’avventura onirica.

Rimango un po’ allibito dalla confidenza che si prende questo studente ultimamente. Me lo ricordavo molto più timido. Ho creato dei mostri. Soprattutto, cosa ci fa con il cellulare alle nove del mattino? Non dovrebbe essere a scuola? Ma lascio correre e penso che se un ex alunno arriva a scrivermi questo, o il nuovo docente è davvero un rompiballe, oppure qualche segno lo devo pur aver lasciato. E lo prendo come un complimento. Per il resto rimango uno sfigato precario a zonzo.

Poi mi riassale l’incubo dell’incubo. Che sia premonitore? Se ho sognato Bosio e Bosio oggi mi scrive dopo settimane che ho lasciato la scuola, allora a breve potrebbe venire anche un terremoto!

Dove diavolo è la valeriana?

C’è di sicuro un qualche significato, forse un’epifania. E la sento già affiorare. Ripercorro mentalmente tutto l’incubo-sogno, per paura di dimenticarlo non appena riassorbito dal tran-tran quotidiano. Devo ricordarlo, per riorganizzarlo.

E rientro nel sogno ma ad occhi aperti. Rivedo quel modello di sinergia che è il mondo perfetto dei bambini e dei ragazzi. Dove ognuno ha un proprio ruolo. Ognuno pare conoscerlo già. Tutti sanno quali sono le proprie potenzialità, in barba a ciò che pensano gli adulti. E in barba a ciò che, appunto, noi pensiamo che sappiano o non sappiano fare, loro lo fanno. Nel mondo perfetto non c’è pregiudizio, non c’è omologazione, non c’è bisogno di dirlo: tutti mettono al servizio le proprie caratteristiche per il bene comune della collettività. E ne sono felici.

Non potrebbe essere altrimenti.

Nel complesso sono contento, perché anche se gli incubi non stanno diminuendo, per lo meno si sta modificando la loro tipologia. Da incubi terribili e indecifrabili a incubi per lo meno decodificabili. O forse sono io che sto cambiando.Oggi, per esempio, scopro di aver scovato la Logica del Mondo Perfetto e la Capacità di Osservarla.  E come un tesoro me la metto nella Sacca delle Parole Perdute e Ritrovate. La capacità di Osservazione mi tornerà certamente utile.

osservare v. tr. [dal lat. Observare]. Guardare, esaminare, considerare con attenzione, anche con l’aiuto di strumenti adatti, al fine di conoscere meglio, di rendersi conto di qualche cosa, di rilevare i particolari, o per formulare giudizî e considerazioni di varia natura, o fenomeni. Più genericamente, posare attentamente lo sguardo su qualche cosa o su persone, sia per semplice curiosità, sia con intenzione critica. Notare, rilevare. Seguire ciò che una legge, una disposizione, una norma prescrive. Anticamente, riverire, fare atto d’ossequio. (Treccani)

(Stefania Contardi 2018)