Parigi, 10 gennaio 1989

Wolf era svanito nel nulla.

I bambini stavano facendo i compiti di francese. Non se la cavavano ancora bene con la lingua. A Berlino est, non era certo una lingua facilmente gestibile nemmeno tra le mura domestiche. Per questo non lo parlavo mai, il francese.

Io li osservavo. Godendo di questa nuova quotidianità. Ma ogni sera, mi assaliva l’incubo che qualcuno spalancasse quella porta, entrando senza tanti complimenti.

“Mamma ho finito”, disse la mia Ingrid con gran sollievo. Karen li aveva già finiti da un pezzo e Konrad non aveva ancora aperto libro.

“Se ci fosse stato papà, mi avrebbe aiutato”, sbuffò Konrad.

“Ma se papà non c’è mai stato! Cosa ne sai tu!”, gli rispose Karen stizzita.

“La mamma ha sempre detto che parlava benissimo francese”, aggiunse lui, irritato.

“Io comunque ho sette in francese”.

“Senti chi parla! Quella che scrive ancora Exkuse moi con la kappa”.

E avanti così.

Pauline li guardava e taceva. Sapeva che qualsiasi cosa avesse detto, non avrebbe mai colmato quella mancanza.

Aveva perso il conto degli anni, dall’ultima volta che aveva visto Wolf.

Lasciò che si azzuffassero, almeno la lite li avrebbe distolti momentaneamente dal pensiero di un padre che per loro esisteva solo in qualità di grande assente. Non un cenno, nemmeno nel nostro codice personale.

Mi accinsi ad aprire la posta, seduta alla scrivania dove Wolf era solito passare le notti su carte e dossier. Malgrado fosse stata traslocata da Berlino a Parigi, il legno aveva assorbito l’odore dolciastro del tabacco Full Virginia Samuel Gawith, il suo preferito.

Era tutto ciò che mi rimaneva, oltre a Ingrid e ai gemelli che però non sapevano minimamente di tabacco, né potevano sentirlo, non avendo mai avuto alcun ricordo diretto del padre. Perché gli odori vivono nei ricordi, se non li hai è impossibile immaginarli, e allora essi, gli odori, semplicemente non sono.

Quelli a Berlino erano stati tempi incerti. Non fidarsi mai di nessuno era sempre meglio che fidarsi di uno solo. Il dramma era cercare di fidarsi almeno di sé stessi. L’incoerenza era un’arma a doppio taglio.

Ricordo che quel giorno andai come sempre al secretaire Luigi XVI, ereditato dal nonno. Ne estrassi il solito diario per annotare alcune cose a tal proposito: “Coerenza ideologica e incoerenza storica”.

La coerenza. Bella storia la coerenza! Quando a un certo punto diventa così miope da non vedere più alcuna messa in discussione, alcuna possibilità di cambiamento, quando non si accorge nemmeno delle mutate circostanze, dei tempi nuovi, diventa testardaggine. Restare fissi sulle proprie posizioni, a priori, è diabolico, oltre che altamente controproducente. Ma anche la stasi è una scelta.

E, in fondo, anche la Stasi.

Improvvisamente bussarono violentemente con il ferro al portoncino di ingresso.

“Cristo! La Stasi!”, pensai.

Il legno del portoncino vibrava ad ogni percossa. Il fantasma del carcere, il totale isolamento per giorni, per avere omesso delle informazioni, erano dietro quella porta. La nausea delle prime settimane di gestazione era amplificata dall’odore nauseante di chiuso e umidità che mi riempiva ancora le narici. Mi era costato non pochi incubi notturni, depressione e altre forme di psicosi che affogavo nei tranquillanti. Vivevo da poco con Wolf e la mia vita era cambiata. In peggio o in meglio era difficile dire. Fino a quel giorno. Wolf era in una delle sue missioni all’estero, per lui uscire da Berlino Est non era un problema, essendo a capo dell’Hauptverwaltung Aufklärung (HVA), dedito allo spionaggio verso l’estero. Fui prelevata con uno dei temibili Barkas 1000. Non valse a nulla che mostrassi tutte le mie credenziali. Fui interrogata a lungo, forse con più garbo, rispetto ad altri interrogatori, “con un occhio di riguardo” mi dissero, considerata il mio legame con Wolf. Ma quando mi porsero una giacca di lana jaquard e una sciarpa rossa, ne sentii l’odore da lontano. Perché questo era il mio compito. La mia dote. La mia dannazione. Saper riconoscere e catalogare tutti gli odori, i profumi, le essenze e le identità olfattive. Come uno dei loro maledetti cani. Ma molto meglio. Ero in grado di fare connessioni, legami, e stilare report precisi.

Capii che poteva essere stato solo Wolf a tirarmi questa trappola. Non glielo perdonai. Il carcere fu una “prova d’amore”, mi disse. Il suo patto, in cambio di una libertà presunta. E anche una promozione.

Ma molto cambiò. Oserei dire tutto. E da lì in avanti divenni maestra di incoerenza, a tal punto di credere, invece, di essere veramente chi fingevo di essere, io stessa. E la mia bravura era proprio questa.

Intanto, Wolf, mio marito, era diventato il mio nemico numero uno.

Il fragore insistente sulla porta risaliva nella tromba delle scale, e si riproduceva in tutto il suo volume. I bambini si guardarono negli occhi, attoniti, ma non terrorizzati. Avevano quella paura che, nell’ignoranza delle cose, si manifesta incredula, mista all’istinto primordiale di conservazione che è capace di riconoscere un pericolo imminente. Ma erano già stati istruiti. Sarebbero dovuti sgattaiolare in soffitta e nascondersi nell’armadio. Poco meno di venti secondi, il tempo che li separava dal portoncino principale da cui proveniva l’insistente battere violento e ripetitivo delle nocche sul legno e poi i venti scalini. Per la precisione, una rampa di dieci scalini che terminava nel pianerottolo dove avevo sistemato alcune dracene, una spatifillo bianca e un ficus che, invece, doveva essere stato lì da sempre. Poi la scala riprendeva ad U in un’altra rampa di dieci scalini, fino alla porta interna. Undici secondi ad andatura sostenuta. Ne avevano già fatto pratica. Per loro era come giocare alle Cronache di Narnia.

Io ero quasi certa di essere sotto osservazione anche a Parigi, sebbene avessi setacciato la casa più volte, nei cuscini del divano, negli interruttori della luce, ovunque fosse possibile, ma nulla: nessuna cimice. Niente. Non ero più a Berlino, ma i pericoli, quando vissuti con costanza nel tempo, diventano parte del tuo bagaglio percettivo e comportamentale. Diventano abitudini che non hanno confini geografici. Restano dentro di noi.

Mi sistemai il ciuffo biondo che ormai si ribellava alla stanchezza della sera. Allentai leggermente la scollatura dell’abito nero a pois, di cotone spesso, ereditato da mai mamma e sbottonai solo il primo bottone. Ricordo che controllai il rossetto nello specchio liberty, esattamente come se dovessi prepararmi per uscire a cena. Solo le pupille degli occhi erano leggermente dilatate da quel timore che cercavo di domare. Mi imposi di respirare lentamente. In fondo ero stata addestrata una vita anche a quello: a ridurre i battiti cardiaci nelle peggiori situazioni. Afferrai la maniglia di ottone, lucida nella parte di massimo utilizzo, opaca laddove non viene mai sfiorata dalla mano. Aprii la porta con un’inverosimile lentezza, decisamente fuori luogo per la situazione. La richiusi. Mi presi tutto il tempo per studiarne le fattezze, come se non l’avessi mai vista prima: un pannello di legno d’ebano alto circa un metro e novanta centimetri, ospitava un inserto rettangolare in radica di sessanta per quaranta centimetri. La parte superiore era, invece, una finestra inglese in vetro smerigliato opaco, suddivisa in riquadri di due colori, a scacchiera. Notai la quantità di polvere che si era depositata alla base di ogni listino che delimitava ogni riquadro di vetro. Il legno del pannello era, invece, ancora abbastanza lucente.

Scesi la prima rampa, accertandomi con la coda dell’occhio che le piante avessero acqua a sufficienza e scesi la seconda rampa. Esitai solo una frazione di secondo al portoncino, sconquassato dall’insistenza del ferro, ma non volli guardare dallo spioncino. Aprii direttamente.

“Ti prego fammi entrare!!”, sussurrò avidamente l’uomo, infilandosi aggressivamente nel pertugio tra la porta e lo stipite. Senza chiedere permesso e ancora prima che la porta potesse aprirsi del tutto, la richiuse brutalmente dietro di sé.

“Cosa ci fai qui? Come ci sei arrivato?”

Trovavo davvero inverosimile che avesse potuto varcare il confine.

“Ti sto seguendo da qualche giorno. Ho bisogno di te”.

Faticavo a riconoscerne l’odore. Puzzava di alcool e di paura. Le nuove note olfattive si confondevano al sentore di rosmarino e olio leggermente bruciato che aveva sconfinato dall’appartamento e permaneva ancora nell’atrio. Erano le patate arrosto della cena, che avevo lasciato nel forno, un po’ oltre il tempo ideale di cottura.

Non sapevo come avrei dovuto o potuto aiutarlo e ripercorsi mentalmente la situazione e il numero considerevole di possibilità, di alternative e le loro conseguenze ad immediato, medio e lungo termine. Come sempre. Certe abilità non si perdono. È come andare in bicicletta. Nell’urgenza, pedali anche se non pedali da una vita.

I bambini erano chiusi nell’armadio.

Marcel, il vicino, stava suonando l’Adagio di Albinoni al violino.

“Pauline, ci sono procedimenti a mio carico. Non so per quanto potrò restare, il KONSUM mi sta cercando”.

“Ma come? Non eri un collaboratore?”, l’imperfetto era volutamente retorico.

“Hai detto bene: ero. Sono un disertore. Ci sono più infiltrati oltre confine, che tedeschi in Germania. Non immischiarti”.

Sapevo, ma non lo diedi a vedere. Sapere mi era già costato molto.

Trascorse un mese in cantina e nessuno, a parte Ingrid, se ne accorse. Poi dovette trasferirsi ad altro seminterrato.

Il KONSUM era la sigla con la quale i tedeschi dell’Est facevano riferimento al MFS, il Ministero per la Sicurezza di Stato, poi noto come Stasi, dopo i fatti del 1989. Per quanto mi riguardava, Konsum (consommation) o Stasi (stase), risuonavano come le due facce della stessa medaglia: essere consumati dalla stasi dentro a una trappola chiusa. O per lo meno, fino alla data del suo surriscaldamento, nel 1989. La pentola evidentemente bolliva da qualche parte negli scantinati dell’anima già da un bel po’. Tuttavia, qualcuno continuava a credere che il regime socialista non fosse una tirannia. Per lo meno, quanti erano stati addestrati nel Comintern. Ogni possibile accusa non ammetteva alcuna messa in discussione e si infrangeva nella difesa mentale, secondo cui l’accusa non prevedeva mai considerazioni quali “è o potrebbe essere vero?”, ma veniva girata in “cosa stanno nascondendoci per arrivare ad esplicitare una tale accusa nei nostri confronti?”.

Era lo stesso approccio dei nazisti, alla fine. L’apoteosi del sospetto e dell’ostentazione delle proprie ragioni, senza alternativa. Un muro mentale, prima che di cemento.

Da quando vivo in Francia ho iniziato ad apprezzare il vino Sauternes, rigorosamente in un calice di cristallo di Boemia. Le narici vengono invase dal sentore di muffa e fumo. La muffa. Adoro l’odore di muffa. Non di tutte le muffe.

Schulz sapeva spesso di muffa. E gli ultimi tempi, più per il fatto che aveva vissuto nascosto, come un topo, passando da uno scantinato all’altro, che non per le sue velleità enologiche di contrabbando giovanili. Anche Schulz amava i vini muffati.

Era il 1981.“Devi metterlo sotto controllo”, mi ordinò Kaffmann. Io ero incinta, ma a differenza di colleghe con ruoli minori, l’agenzia non parve perdere interesse nel mio servizio. E nella DDR il ruolo della donna era tutto sommato valorizzato. Era normale che una donna lavorasse pur avendo figli. E poi c’erano gli asili e nidi e molte domestiche disponibili. Io avevo Ester. E l’aborto era legale già dal 1972.

Decisamente un’epoca di contraddizioni.

“Perché lui?”, chiesi senza mostrare alcuna inflessione.

“Ci sono tutti i presupposti perché tu lo faccia. H587 ci ha riportato dei dubbi sul suo conto. Chi meglio di te?”

Non potevo certo rifiutarmi. Era stato il mio migliore amico, fin dai tempi della Humboldt Universitat.

“Passi pure. La stanno attendendo”.

La sbarra al checkpoint si aprì senza che mi dovessi fermare. Mi avevano convocato al quartier generale del Ministero della Sicurezza di Stato, sette piani finestrati di plumbeo grigiore, che incutevano sempre un certo senso claustrofobico. Piani di cui conoscevo la gravità delle conseguenze.

Mi porsero una sciarpa di lana rossa, trovata in qualche luogo sospetto. La annusai ripetutamente. Era infeltrita e mi raschiava le narici.

“Non è di nessuno che riconosca. No, non è di Schulz”, dissi con certezza assoluta.

Con l’allenamento, si impara a mentire a sé stessi, per mentire agli altri.

Era pulito. O almeno così feci credere: una soffiata sbagliata.

Al tempo avevo un certo peso nell’agenzia. Ma stavo giocando con il fuoco. Volevo solo dargli tempo. Non potevo fare di più, nemmeno in nome della nostra amicizia. Ma poi le radici si scoprono sempre, prima o poi, quando l’albero inizia ad invecchiare. E Schulz tornò ad essere più Kowalski che Schulz. L’onda anomala di Lech Walesa era frutto di una perturbazione più grande di quanto si pensasse. La Stasi non lo sapeva ancora, ma quando lo assoldò sapeva bene il rischio del “peccato originale”: l’orgoglio nazionalista polacco.

Quando le origini tornano, il gioco si fa più complesso perché le variabili di sdoppiamento aumentano. Il suo gruppo di lavoro non se la stava cavando bene. Durante il periodo di maggior instabilità in Polonia qualcosa non funzionò, malgrado lavorassimo in accordo con il Ministro dell’Interno polacco. Le misure prese per influenzare l’opinione pubblica non portarono a molto. Solidarnosc era troppo rivoluzionaria, più che altro destabilizzante: ribaltava l’idea convenzionale dei dissidenti dell’est, per cui la stabilità economica e sociale dovesse essere alla base delle riforme.

Ai comunisti della DDR, insomma, mancava il fegato? Io so solo che iniziavano tutti a sapere di muffa.

Ma non sempre la muffa è un male. Ad esempio, quella che attacca l’uva, sovente è un pregio e, se abilmente sfruttata, può far produrre quegli ottimi vini dolci che sono appunto i muffati. Dolci, in modo opulento e sfacciato, vellutato e oleoso, ti impiastricciano le papille e i sensi in una mielosità sensuale che è preludio del loro stesso potere, come il Sauternes Chateaux D’Yqueme: un vino lento e zelante, che racchiude nelle sue qualità, il senso del lavoro meticoloso. La vigna è curata senza sosta. Minuziosamente. All’inizio dell’inverno i vignaioli effettuano un intaglio molto corto, cioè l’intaglio tradizionale ‘à cots’ che limita il potenziale quantitativo per favorire una qualità massima. La vigna non è mai diserbata ma lavorata continuamente, nessun fertilizzante chimico è impiegato, solo un apporto di letame è fatto ogni tre, quattro anni. È così che la vigna ricerca in profondità gli elementi necessari alla sua vitalità. I lavori di sfogliatura cominciano a fine agosto. Un altro fattore favorevole per il vino di Yquem è la ‘botritis’, un fungo microscopico le cui condizioni di sviluppo sono ancora avvolte nel mistero. È quel ‘marciume nobile’ che provoca un fenomeno biochimico estremamente complesso che ha come conseguenza l’accrescimento della ricchezza e degli aromi.

Così diventò presto Schulz, appassito e marcito nei seminterrati parigini. Maturo, zuccherino, dal sentore remoto di affumicatura. Ma da stufa a legna. Nobile d’animo e di muffa. Un’etichetta aromatica di indiscutibile pregio. Da morto, però, la muffa aveva iniziato a cambiare. Da odore in afrore, perché il processo di decomposizione, si sa, cambia le cose, quando il cuore smette di battere: si interrompe la circolazione sanguigna, perciò il sangue non irrora più i tessuti, e le cellule, non ricevendo più ossigeno e nutrimento, muoiono. L’azione dei diversi batteri produce i primi odori e le loro attività metaboliche producono infatti diversi tipi di gas che causano il classico gonfiore del corpo e, soprattutto, la sua puzza. Man mano che le molecole organiche del cadavere vengono digerite e altre si formano, cambiano anche i batteri e gli insetti che usano in vario modo queste sostanze. Putrescina e cadaverina, descritte nel 1885 dal medico Ludwig Brieger, hanno il caratteristico odore di carne putrefatta. Lo scatolo, dall’essenza più fecale, e l’indolo, più muffoso, danno invece al cadavere delle declinazioni odorose più stantie, ma si tratta di molecole che a basse concentrazioni hanno un sentore floreale. Lo scatolo, oltre a essere attraente per molti insetti lo si trova in minima dose anche negli olii essenziali dei fiori d’arancio e del gelsomino e insieme all’indolo viene usato anche in profumeria. Anche sulla nostra pelle viva passa il mondo. Essa è dimora di molti microrganismi, funghi e batteri che lavorano in simbiosi con il nostro organismo e ne conferiscono l’odore individuale, l’inconfondibile unicità dell’aroma. Non uno uguale. È la nostra identità olfattiva. La vinificazione del Sauternes dura circa tre o quattro anni per raggiungere la perfezione e una longevità di anche 25 anni.

Schulz, invece, lo trovarono già in stadio colliquativo dopo circa due mesi, la barba incolta e ancora con la giacca di tweed addosso. Era accasciato, riverso sulla brandina come dopo una sbornia. Dal colore rosa-rosso delle macchie ipostatiche, fu subito chiaro il decesso per avvelenamento. Il braccio destro, ciondolante, aveva rilasciato una bottiglia di Chateaux de Malle, rovesciando parte del liquido aromatico, presto assorbito dal pavimento di cotto, che doveva aver contribuito al bouquet del resto degli effluvi post mortem.

A Berlino est sembrava che le cose non cambiassero mai. Non potevi sentirti al sicuro nemmeno quando la Stasi eri tu. C’era diffidenza, violazione della privacy, un enorme Grande Fratello in un rapporto di quasi uno a sette adulti per operatore di controllo. Perché oltre ai quasi centomila dipendenti ufficiali della Stasi, c’erano poi più di centosettantamila informatori, ai quali se si aggiungono quelli dedicati solo saltuariamente, si arriva a questo rapporto su una popolazione di ben diciassette milioni di abitanti. Mica roba da ridere. Identità confuse si mescolavano a identità fittizie, più o meno credibili o credute. E a quelle olfattive. Ma quelle, no, non tradivano. Mai. Impossibile modificarle.

La Stasi era implacabile. Aveva accesso a tutte le informazioni. Era presente ovunque. Era il cane senza museruola, la guardia nazionale di sua maestà il Sed, il Sozialistische Einheitspartei Deutschland, il Partito Socialista unitario di Germania. Controllava tutto. Usava anche lo Zersetzung, una sorta di “biodegradazione” che andava a minare la fiducia in sé stessi, danneggiandone la reputazione, paralizzandone l’attività lavorativa o le stesse relazioni interpersonali. Diabolico. Ma c’è ancora chi oggi si domanda se questo avesse fatto più vittime del capitalismo. Di certo si passò dall’idolatria di un’ideologia, all’idolatria della merce. È forse questo il prezzo della libertà? Un’enorme doppia fregatura. Forse un tempo non eri libero di esprimere apertamente le tue opinioni, mentre oggi puoi fare le manifestazioni che vuoi, e urlare alla gente. Ma che senso ha se poi non ti ascolta nessuno?

Frederik Schulz, espiò ampiamente, anche se solo tardivamente, il suo peccato originale.

Meglio così, non fece quasi in tempo a illudersi e tantomeno a disilludersi di nuovo.

Nel luglio 1989, mi toccò riconoscere il suo cadavere.

Un monito nei miei confronti.

E non fu una passeggiata.

Il funerale fu anche l’ultimo contatto diretto che ebbi con la Stasi. I seguenti sarebbero stati pochi mesi dopo, a Muro caduto, con l’Autorità Fascicoli Stasi, per cercare l’esistenza di un dossier che rimandasse alle reali cause di morte di Schulz.

E non solo di Schulz.

Il funerale era deserto. Disertato dai più. Nessun membro del partito né dell’intelligence. Forse solo un paio di agenti mandati tanto per dissimulare il dubbio. Che non fosse stato un suicidio.

Era una giornata piovosa e fredda. Berlino si smentiva raramente.

La location non l’aveva certo scelta Schulz.

E fu parte del programma.

“Die Toten mahnen uns” (“i morti ci ammoniscono”) si legge in entrata. Il Cimitero Centrale di Friederichsfelde era infatti il più grande raduno di anime socialiste dei tempi andati. Un vero omaggio alla sinistra: Wilhelm e Karl Liebknecht, Rosa Luxemburg, Wilhelm Pieck e Walter Ulbricht, segretario del Partito Socialista e poi Presidente del Consiglio di Stato. Vi proseguivano il sonno eterno a pochi metri.

Lasciai cadere una rosa rossa sulla bara, non tanto per onorare la tradizione comunista, ma per non dare nell’occhio, appunto, se non lo avessi fatto.

Diciamo che Schulz avrebbe sorvolato sull’incoerenza, visto che gli avevo salvato il posteriore. E più di una volta. Ma l’ideologia ha un prezzo. Il problema è che, prima o poi, lo paghiamo tutti.

(© 2017 Stefania Contardi)